Beppe di Benedetto 5th: Another Point of View (di Max Scaccaglia)

Nel ribollente clima tra i ’60 e ’70 il Jazz visse il definitivo affrancamento stilistico dal Be Bop. Complice una Blue Note tecnicamente e mirabilmente guidata dal genio di Rudy Van Gelder, prese forma ciò che oggi chiamiamo “jazz moderno”.

Si perfezionò uno stilema classicheggiante, dalla timbrica definita che divenne paradigma, manuale per i decenni a venire. Prima che il determinante lavoro di Manfred Eicher e della sua ECM rendesse questo “jazz da camera” soggetto all’influenza mittel e nord europea, ibridando le due importanti tradizioni divise dall’Atlantico.

Certo, se dovessimo rendere giustizia al riuscito connubio classica-jazz dovremmo tornare indietro addirittura agli anni 50, dove quattro pionieri al soldo di Dizzy Gillespie osarono proporre un jazz da camera, quasi in modalità barocca: il mai abbastanza osannato Modern Jazz Quartet del pianista John Lewis. Non senza contestazioni e roventi accuse di voler piegare il jazz alla cultura bianca, questa “quiet revolution” in piena New York post bellica, si insinuò e divenne scuola: i primi “The Quartet” e “M J Q” ridefinirono l’intera grammatica, diventando pietre miliari non più prescindibili. La longeva prolificità e la folla di illustri seguaci è testimone della loro capacità profetica.

Comincia così il disco del Beppe di Benedetto 5th, con una agile e ariosa composizione di “classico jazz moderno” dal tema carismatico, pungente: e i pensieri che mi assalgono vanno subito a “Speak No Evil” di Shorter (Blue Note 1964) per l’intenzione o a “Maiden Voyage” di Hancock (Blue Note 1967) per il pianismo nitido e mai scontato di Savazzi. Quello che però davvero sorprende è l’accostamento per affinità elettive al pianeta Dave Holland 5th in casa ECM e di tutti gli artisti che vi gravitano attorno: da Chris Potter a Steve Coleman (pulito dal funk elettrico, ovviamente). In particolare lo strepitoso “Prime Directive” del 1998, preceduto l’anno prima da “Points of View” appunto .

Bene, in uno spazio-tempo dilatato e in una forma classica, sempre nuova, Beppe sembra riprendere Dave e ci pone sotto un’altra prospettiva: “Another point of view” appunto, titolo del lavoro e della programmatica traccia iniziale.

Beppe di Benedetto si diletta in un gioco di specchi di escheriana intenzione, tra forma rigida e fluida. Rigida per la necessaria e voluta concettualizzazione tematica e armonica. Fluida e permeabile per le trame elastiche nelle quali inserire improvvisazioni (soprattutto Savazzi e Vernizzi) mai avulse dal contesto, ma a guidare ed elaborare il materiale sonoro diventando esse stesse composizione, non mancando preziosismi e dinamiche rotture di equilibrio. Senza intellettualismi però. Massima fruibilità.

Il tempo rallenta con “Autumn”, ma non la positiva tensione tematica che sicuramente la lettura di Savazzi non vuole mai sciogliere, pur illudendocene, conducendo pieni e vuoti lungo tutto il brano fino allo spuntare della ballad “Dark Soul”, dove i fiati si alternano in un raffinatissimo contrappunto che si scioglie nel lirismo degli assolo.

Da segnalare infatti come la padronanza tecnica e verbale dei musicisti porti naturalmente in seno soluzioni melodiche tipiche del patrimonio italiano: lirico, popolare o cinematografico che sia. Toccando inconsciamente Morricone o Piero Piccioni, rendendo peculiari le soluzioni: il tema della traccia finale ne è chiaro esempio.

Ed è a questo punto “My Bright Place” a colorare il lavoro di tinte solari, raffinate. Approccio bandistico, parte del dna autorale: una accorata corsa di methenyano sapore, mi piace pensare ai lavori con Pat Metheny Group, col sax che imprime guizzi notevoli e il basso che dona movimento baricentrico alla Steve Rodby, fino all’unisono finale.

In “D&B” rispunta in qualche modo il Be Bop, addomesticato e imbrigliato, conduce ancora Carrara con fermezza e dinamismo. La sezione ritmica corre a perdifiato spinta da un Morari sempre incisivo, e di certo gli altri non restano indietro. In sottotraccia ancora stacchi Hancockiani e l’orecchio non si stanca mai di ascoltare.

Arriva “Camaleonte” (che sia un omaggio a “Chameleon” in “Head Hunters”, 1973?) con l’intrigante schema percussivo al quale si sovrappongono, intrappolandosi a vicenda, gli intrecci di piano e ottoni fino ad una slow motion temporale nel quale soprattutto Vernizzi espone un vocabolario di tutto riguardo, fino a che Morari decide di riprendere le redini e condurre verso il finale.

Il livello è alto grazie alla qualità della composizione e al livello degli interpreti: figli dell’indotto manifatturiero musicale parmense.

Un classico modernamente concepito la ballad “Medium Density” con l’euphonium di Beppe (stupenda sonorità) a definire un immaginario tenue e sensibile, rendendo semplici i passaggi non propriamente lineari, qualità in cui risiede uno dei punti di forza del disco.

La chiusura è con “Space Time Travel” che si evidenzia per il piglio concettuale ed etereo. Spaziale appunto. Non in una lettura “free” da ultimo Coltrane, bensì come luogo in cui il quintetto si lascia andare ad atmosfere più libere, ad armonie più trasversali e il pezzo s’innalza verso una improvvisazione corale fatta di temi abbozzati e ripresi, di unisoni e variazioni sostenute con eleganza fino all’apertura melodica di sax e trombone.

Un lavoro di spessore. Conservatore eppure vivace, mai stantio nel suo genere. Sorprende non trovarlo in cataloghi più prestigiosi, una “Abeat” tanto per fare un nome.

Rigorosa e per questo apprezzabile, la scelta acustica dell’autore: confesso che non mi dispiacerebbe sentire in questo contesto, magari nel futuro, qualche intromissione elettrica. Lo stesso Holland in “Extensions” (ECM 1990) portò agli altari un futuristico Kevin Eubanks alla chitarra elettrica, per poi tornare al rigore delle formazioni acustiche. Mi stuzzica qui l’idea di poter ascoltare il percorso inverso: una contaminazione per contestualizzare maggiormente e rendere (semmai possibile) ancora più appetibile il lavoro di questi artisti “nostrani” presso sedi più illustri, più adatte. Strade come quelle percorse negli anni 2000 da artisti del rango di Jason Lindner, del Donny McCaslin di “Fast Future” (Greenleaf Music) anch’esso uscito nel 2015, oppure dal Chris Potter di “Ultrahang” (Artistshare 2009). E chiudo qui perché nel Jazz il gioco dei riferimenti può diventare infinito proprio a causa della sua forma rigida e al contempo elastica, perfettamente interpretata in questo riuscito lavoro del Beppe di Benedetto Quintet.

Voto 9,5/10

Massimo Scaccaglia

SITO: https://www.beppedibenedetto.net/beppedibenedetto5tetita

FORMAZIONE:
Beppe Di Benedetto: trombone & euphonium; Emiliano Vernizzi: tenore & soprano sax; Luca Savazzi: pianoforte; Stefano Carrara: contrabbasso; Michele Morari: batteria.
RIFERIMENTI E ASCOLTI CONSIGLIATI:
Modern Jazz Quartet: “The Quartet” (Savoy Records 1951), “M J Q” (Prestige Records 1952), “At Music Inn, Vol.2 – with Sonny Rollins” (Atlantic Records 1958).
Wayne Shorter: “Speak No Evil” (Blue Note 1964).
Herbie Hancock: “Maiden Voyage” (Blue Note 1967); “Speak like a Child” (Blue Note 1968).
Dave Holland Quintet: “Extensions” (ECM 1990); “Prime Directive” (ECM 1998).
Chris Potter di “Ultrahang” (Artistshare 2009).
Donny McCaslin di “Fast Future” (Greenleaf Music 2015).

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