Avagliano presenta il saggio “L’Italia di Salò” alla Voltapagina

Il 12 settembre del 1943, quattro giorni dopo l’annuncio dell’armistizio, Benito Mussolini viene liberato dai paracadutisti tedeschi al Gran Sasso e condotto in Germania. Dai microfoni di Radio Monaco annuncia la nascita della Repubblica sociale italiana nel centro-nord della nostra penisola occupato dalla Wehrmacht.

Anche in Emilia Romagna, il ritorno del duce, la nascita della Rsi e la nuova chiamata alle armi per continuare la guerra al fronte contro gli Alleati, pongono la popolazione di fronte alla necessità di fare una scelta. E nonostante l’alea di una bruciante sconfitta, migliaia di giovani, donne e anziani aderiscono all’esercito di Salò, in varie forme, dalle divisioni militari alla milizia di partito alle bande irregolari e ai contingenti arruolati con i tedeschi, a partire dalle SS italiane.

La storiografia ha indagato a fondo sulla Rsi, ma assai poco sulle ragioni e le motivazioni di questa massiccia adesione. Un saggio documentatissimo, «L’Italia di Salò», di Mario Avagliano e Marco Palmieri (Il Mulino, pp. 490, euro 28), che sarà presentato a Parma il 26 maggio alla Libreria Voltapagina, alle ore 18, ricostruisce quella vicenda dal basso, con l’ausilio delle fonti coeve disponibili – lettere, diari, testamenti ideologici, posta censurata, relazioni sul morale delle truppe e sullo spirito pubblico, notiziari della Gnr, note fiduciarie, carte di polizia e dei servizi segreti – e della memorialistica postuma, con molte testimonianze provenienti dall’Emilia Romagna.

Dopo la caduta del fascismo, il 25 luglio del 1943, non tutti gli italiani esultano. «Il popolo fa manifestazioni d’entusiasmo e non capisce in quale situazione si trova l’Italia», è il commento a caldo del giovane Ottaviano Rocchi di Borgomanero (Novara) in una lettera al padre, direttore della Gazzetta di Parma. Dopo il disorientamento iniziale, si assiste ai primi movimenti di singoli personaggi o piccoli gruppi che in segreto iniziano a cospirare con l’obiettivo di riorganizzare le forze fasciste. Tra questi c’è il bolognese Franz Pagliani, vicesegretario del disciolto partito, che viene arrestato e condannato a tre anni per tentata ricostituzione del partito fascista. Liberato dai tedeschi dopo l’armistizio, fonderà il fascio repubblicano di Bologna.

Più che il 25 luglio, però, la vera data traumatica e di rottura rispetto al passato è rappresentata da quell’«apocalittico sconquasso dell’8 settembre», usando l’espressione del volontario nella Gnr Vinicio Gotti di Castelmaggiore (Bologna)

La riorganizzazione del regime passa anche dalle strutture del partito, diventato Partito fascista repubblicano. In tutte le città ferve l’attività per ricostituire le federazioni, ad opera soprattutto di esponenti della Milizia e di vecchi squadristi. A Bologna, ad esempio, già nella mattinata del 9 settembre viene riaperta la vecchia federazione e al balcone viene esposto il gagliardetto

Avagliano e Palmieri individuano nel quadro ampio e composito degli aderenti e dei combattenti di Salò una prima ondata, su base volontaria e fortemente ideologica, che si configura come rifiuto dell’armistizio immediatamente dopo il suo annuncio, da parte di coloro che decidono di passare subito con i tedeschi per continuare a combattere al loro fianco o tra le loro fila, prima ancora che nascesse un nuovo governo fascista; tra di loro ci sono soprattutto i fascisti convinti e alcuni nuclei o unità dell’esercito. «È l’Italia che finalmente risorge per cancellare l’aborrito marchio del tradimento e per ridare a se stessa il suo posto nel mondo», commenta il milite Silvano Spadoni, romagnolo di Godo di Ravenna, il 13 ottobre 1944. Alcuni di questi giovani nel dopoguerra si sarebbero affermati nel campo della cultura, dell’università, del giornalismo, dello spettacolo, da Giorgio Albertazzi a Dario Fo e Raimondo Vianello.

La nascita di un nuovo governo fascista al nord, contrapposto a quello monarchico guidato da Badoglio al sud, costringe i militari italiani sbandati dopo l’armistizio, disarmati e internati dai tedeschi o già prigionieri degli Alleati, a decidere da che parte stare.

L’emiliano Vinicio Gotti afferma di essere stato «guidato» nella scelta dalla «visione di tanti Morti, di tanti miei Amici spenti sui campi sconfinati della Russia, nell’ardente deserto dell’Africa, sui ghiacciai della Grecia, nell’azzurro dei nostri mari, in tutti i cieli del nostro continente». «Questo mio vivere – annota nel suo diario il sottotenente della Gnr Otello Boldrini, emiliano di Sestola (Modena) – è proprio un vivere pericolosamente. La morte mi circonda da ogni parte; eppur non mi fa paura. Morire per la Patria! Morire per l’idea in fondo è una fortuna! Speriamo bene! Morire amando è vivere. W il Duce!».

La terza e ultima fase ha inizio con il concreto avvio della riorganizzazione delle forze armate della Rsi, nella forma dell’Esercito nazionale repubblicano, formalmente apolitico, della milizia di partito (la Gnr) e delle formazioni autonome al servizio dei tedeschi, e procede per buona parte del 1944, sia con l’emanazione dei bandi di leva, sia con l’afflusso di nuovi volontari, coinvolgendo via via le classi sempre più giovani e le donne reclutate come ausiliarie.

«È con le lacrime agli occhi – scrive da Bologna un giovane entrato nei bersaglieri – ma col cuore fermo che vi comunico la mia decisione: sono partito volontario. Non cercate di raggiungermi e di farmi tornare indietro, perché è impossibile per la mia volontà. Voi mi avete educato nel culto della nostra cara Patria e mi avete insegnato ad amarla. Roma stessa è in pericolo, perciò tocca a noi giovani indomiti difenderla». «Sin dai primi d’aprile – afferma un’aspirante ausiliaria da Reggio Emilia – ho chiesto di rendermi veramente utile alla Patria, e, se il mio desiderio sarà esaurito, verso la metà del prossimo mese partirò per un corso di addestramento ».

Tra le regioni, l’Emilia con il 22% è seconda solo alla Lombardia per tassi di adesione ai bandi di leva. In Emilia Romagna, fra l’altro, hanno sede due delle quattro scuole allievi ufficiali della Gnr, a Fontanellato (Parma) e Modena. Caso particolare è quello di Fontanellato, dove accanto alla formazione tradizionale viene svolto anche un corso di cultura politico-razziale organizzato e condotto dal maggiore Sergio D’Alba.

Non tutte le adesioni però sono convinte. Ci sono giovani chiamati alla leva che, pur presentandosi, manifestano in modo relativamente esplicito la loro critica al regime, come ricorderà poi il matematico Giovanni Prodi, fratello dell’economista e futuro presidente del consiglio Romano: «Avevo compiuto 19 anni nell’estate 1944 in Germania, nel periodo di istruzione militare; ero stato destinato alla divisione Italia. Eccettuati pochi volontari, eravamo tutti “disfattisti”; nella grande carta geografica d’Europa, stesa nel refettorio, mettevamo le bandierine sulle città conquistate dagli Alleati».

«Le reclute presentatesi in questi giorni a Bologna – si legge in un’informativa del marzo 1944 al comandante della Gnr Ricci – palesano nella maggioranza idee sovversive. Per tale motivo furono fermati l’11 corrente circa 500 soldati alloggiati nella caserma Cadorna (Croce di Casalecchio) e avviati alla stazione per essere internati. Nell’attraversare la città cantarono l’Internazionale. Cantarono inni sovversivi anche i militari che a piedi si recavano a Corticella per prendere il treno per il Veneto».

Nell’estate del 1944, in seguito all’avanzata del fronte e al salto di qualità della Resistenza, si assiste ad una ulteriore stretta. Mussolini infatti ordina al ministro della Difesa e comandante delle forze armate Rodolfo Graziani di assumere il coordinamento di tutte le forze impegnate contro i partigiani – cosa di cui si fa pienamente carico annunciando una marcia contro la Vandea – mentre l’intero partito fascista viene militarizzato con la creazione delle Brigate nere.

La conseguenza è che da quel momento in poi il grosso dei combattenti di Salò, siano essi reclute dell’esercito regolare formalmente apolitico o membri delle formazioni di partito fortemente ideologizzate, viene impiegato prevalentemente nella guerra civile e contro il nemico interno, prendendo parte al clima di violenza indiscriminata, sommaria e diffusa contro i partigiani e la popolazione civile e all’opera di cattura e deportazione degli avversari politici (i triangoli rossi) e degli ebrei.

In provincia i fascisti applaudono alla svolta violenta contro i ribelli. A Reggio Emilia, ad esempio, sul settimanale Diana repubblicana, dopo la fucilazione per rappresaglia di don Pasquino Borghi e di altre otto persone da parte della Gnr, il 6 febbraio 1944 si leggono frasi come queste nell’editoriale a firma del commissario federale Armando Wender, intitolato La legge del taglione: «siamo entrati nell’ordine di idee necessarie per stroncare il loro terrore con il contro-terrore»; «Se per ora il rapporto è stato di uno a tre [nelle rappresaglie], nulla ci vieterà di innalzare in progressione geometrica in casi estremi anche all’ennesima potenza».

In una lettera da Parma si legge: «questi maledetti hanno insanguinato le nostre terre con le loro inumane azioni. […] Si reclama da tutti le più energiche misure, Bisogna sterminarli»

Lo spirito vendicativo si traduce ben presto nell’utilizzo di metodi violenti contro gli antifascisti e i partigiani catturati e non passati subito per le armi, che contraddistingue in particolare l’azione degli Uffici politici investigativi della Gnr a livello provinciale, come riferisce una sentenza del dopoguerra relativa ad alcuni militi dell’ufficio di Villa Cucchi a Reggio Emilia, in cui si parla di «maltrattamenti che si attuavano mediante legature, a lungo protratte, degli inquisiti, su di un tavolo, con la testa e le estremità volte verso terra, battiture, scottature con ferro da stiro, olio bollente, cenere calda e brace, strappamento di peli, applicazione ai piedi di corrente elettrica, senza alcun riguardo neppure del sesso e del pudore delle giovani arrestate, brutalmente offese con atti abominevoli».

Una confidente dei tedeschi del presidio di Parma è Marina Capelli, che collabora all’arresto di almeno 164 persone, molte delle quali poi fucilate in quanto partigiani. Tra le delatrici al servizio degli Uffici politici investigativi di Salò c’è anche il caso dell’ex staffetta partigiana del Gap di Bologna, Lidia Golinelli detta Vienna, che dopo essere stata catturata a inizio gennaio passa al servizio dell’Upi, contribuendo alla cattura di diversi partigiani e partecipando a rastrellamenti.

E a volte anche da parte tedesca si registrano forti riserve per i comportamenti violenti messi in atto dai brigatisti. Il comandante della piazza di Bologna, generale Frido Von Senger un Etterlin, scrive: «Autentico flagello della popolazione, le Brigate nere sono altrettanto odiate dai cittadini come dalle autorità e da me»

A ben vedere, come scrivono Avagliano e Palmieri, «in tema di violenza esiste un asse ben delineato tra il fascismo squadristico delle origini, la spietata repressione degli oppositori durante il Ventennio, le pratiche criminali messe in pratica nelle guerre combattute e nei territori occupati, come in Etiopia e nei Balcani, e infine l’esperienza di Salò. L’immagine dell’ultimo fascismo tutto sommato bonario o meramente subalterno alle politiche belliche naziste, infatti, è smentita dai fatti e dalle fonti, che invece raccontano di una capacità di iniziativa violenta spietata, anche autonoma o comunque volgendo a proprio vantaggio le strategie e le prassi criminali dell’alleato-occupante».

Peraltro, l’esistenza di diversi centri armati a vario titolo responsabili dell’ordine e della forza pubblica (esercito, polizia, bande autonome, Gnr, Brigate nere), favorisce la proliferazione indiscriminata e fuori controllo (ammesso che si volesse controllarli) dei comportamenti violenti. Molte vittime sono donne, contro le quali spesso vengono perpetrati stupri e sevizie brutali nel chiuso delle caserme o delle prigioni.

Alcuni esempi riportati nel libro di Avagliano e Palmieri e riferiti dalle stesse carte di polizia della Rsi: «[Nel] pomeriggio [di] ieri [a] Modena – si legge in un telegramma del 28 agosto 1944 – per futili motivi militi [della] Gnr commettevano omicidio contro civile. Decorsa notte elementi [della] Brigata nera [a] scopo [di] rappresaglia [per l’]uccisione [di un] fascista […] fucilavano et abbandonavano [sulla] pubblica strada 7 ostaggi rastrellati [nei] giorni precedenti». Un’altra «esecuzione sommaria da parte di elementi della Gnr», in cui muoiono 7 uomini rastrellati a Molinella e fucilati in piazza 8 agosto a Bologna davanti al monumento all’insurrezione contro gli austriaci come rappresaglia per l’uccisione di un milite fascista avvenuta il 16 agosto, viene così descritta in un appunto per il duce: «7 cadaveri ammucchiati, con le mani legate sul dorso e con gli occhi bendati. Sopra tale mucchio era stato posto un cartello recante la seguente iscrizione: “Assassini e sabotatori”»

Altre denunce riguardano gli uomini della X Mas, come nel caso di Piacenza, dove si riscontrano «diversi abusi ed inconvenienti», come ad esempio «perquisizioni da poterle classificare vere e proprie rapine», oltre alle frequenti voci di trasferimenti di denaro in Svizzera e sugli ufficiali avvistati in «alberghi di primo ordine in compagnia di donne di facili costumi e sospette in linea politica»

L’immagine dei combattenti di Salò come avventurieri, idealisti o poveri illusi tutto sommato in buona fede non è stata solo frutto di una distorsione dovuta alle propensioni giustificative della memoria a posteriori, ma è servita anche a relegare un tema arduo e scomodo in una zona d’ombra dove non fosse più di tanto necessario e richiesto fare i conti con una pagina importante del proprio passato e della propria storia nazionale. Tuttavia, come racconta il libro di Avagliano e Palmieri, chi dopo l’8 settembre continuò a rimanere fedele all’Idea e alla Causa fascista, appare portato a identificare immediatamente l’idea della vittoria nella guerra contro il nemico straniero con quella della riaffermazione del fascismo stesso, anche contro il nemico interno. Vittoria in guerra, difesa della Patria e del suo onore e riaffermazione del fascismo risultano perciò essere, in molti scritti, specie di chi aderì ai corpi più ideologizzati, un corpo unico perfettamente saldato nel proprio orizzonte ideale. Ed è su queste basi che si fondò la piena predisposizione a combattere, anche con ferocia e determinazione, una sanguinosa guerra civile, fino alla fine.

Una forma di resistenza a oltranza che perdura fino ai primi giorni dopo la liberazione da parte dei fascisti rimasti fedeli a Mussolini e alla Repubblica di Salò è quella dei franchi tiratori che, dopo essersi già manifestata a Napoli nel settembre del 1943, si ripresenta in diverse altre città dell’Italia centro-settentrionale, compresa l’Emilia Romagna, a Forlì, Ravenna, Reggio Emilia, Parma e Piacenza.

A Reggio Emilia, ad esempio, il 24 aprile i fascisti irriducibili tentano di ritardare la liberazione. «La nostra colonna – si legge infatti nel rapporto sull’attività della Brigata Garibaldi “Franco Casoli” – è ormai a metà del Viale [Risorgimento] quando all’improvviso un fuoco intensissimo si riversa su di noi. Le macchine si fermano immediatamente, tutti scendono a terra e si mettono al coperto, mentre qualche mitragliatore, dal camion spara sulle finestrelle dei solai e sugli abbaini da dove sembra provengano i colpi».

Non manca un capitolo sulle vendette del dopo liberazione. A Bologna, secondo la relazione di un commissario garibaldino sempre in data 5 maggio, «data la fuga precipitosa dei nazisti, rimanevano in città molti fascisti repubblicani e collaboratori del nemico occupante, che non avevano il tempo per allontanarsi. Pertanto oltre un migliaio di questi venivano sommariamente giustiziati dal popolo, che si rovesciava nelle strade alla loro caccia». Alle epurazioni di tipo politico, si accompagnano anche atti di delinquenza comune, da parte di chi approfitta della situazione di caos, come rileva ad esempio il rapporto per il mese di maggio del commissariato regionale per l’Emilia Romagna insediato dagli americani, datato 3 giugno, nel quale si legge: «La fase iniziale di eliminazione selvaggia dei fascisti da parte dei patrioti e altri è stata seguita da un’ondata di omicidi, estorsioni e rapimenti sovente a fini privati»

La dedica del saggio di Avagliano e Palmieri riprende una frase significativa di Cesare Pavese: «ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso». Questo libro contribuisce a capire il perché.

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