27 giugno 1916: si conclude la battaglia degli Altipiani

Il 27 giugno 1916 si conclude la battaglia degli Altipiani con gli austro-ungarici che sospendono l’offensiva.

La battaglia degli Altipiani fu combattuta tra il 15 maggio e il 27 giugno 1916, sugli altipiani vicentini, tra l’esercito italiano e quello austro-ungarico, durante la prima guerra mondiale, impegnati in quella che fu definita dagli italiani come “Strafexpedition”, traduzione in tedesco di “spedizione punitiva”. In tedesco la battaglia è individuata come Frühjahrsoffensive (ossia Offensiva di primavera) o Südtiroloffensive (poiché all’epoca il Trentino era il territorio più a sud del Tirolo). Durante la battaglia le perdite tra i due eserciti ammontarono a 230.545 uomini.

Nella notte tra il 14 e il 15 maggio 1916 l’artiglieria austro-ungarica cominciò un bombardamento a tappeto (tecnica finora mai utilizzata sul fronte italiano) sulle linee nemiche, che di fatto colse impreparati molti comandi locali. L’artiglieria italiana, meno della metà di quella austriaca e relativamente inferiore nella potenza, non reagì, avendo ricevuto in molte zone l’ordine di non fare nulla a meno di contrordini diretti da parte del Comando Supremo — ordini che non arrivarono mai, poiché molti degli ufficiali si trovavano in brevi periodi di vacanza in preparazione della seguente offensiva sul Carso.

Le fanterie italiane, pressate e di fatto private delle proprie difese dai grossi calibri avversari, non arretrarono un po’ per ostinazione e un po’ per mancanza di una diretta coordinazione che rendesse il ripiegamento organico. Ciò, effettivamente, non consentì il rafforzamento di quelle seconde e terze linee che si sarebbero poi piegate all’avanzata nemica. Le prime fasi dell’attacco austro-ungarico, dunque, non potevano che essere coronate da successo: l’Undicesima e la Terza Armata austro-ungariche attaccarono su un fronte lungo 70 km, concentrando il proprio attacco lungo le grandi valli di sbocco al Veneto.

In Valsugana gli italiani furono respinti dal XVII Corpo d’armata austro-ungarico fino a Ospedaletto, che divenne una città fortificata e dove il fronte si stabilizzò dopo diversi giorni. Dalla Val Lagarina il VIII Corpo d’armata dilagò prendendo le posizioni della Zugna Torta, Pozzacchio e Col Santo, ma la resistenza italiana seppe tenere sul Coni Zugna, sul Pasubio e sul Passo Buole (dai 10 ai 15 km più indietro); quest’ultimo passò poi alla storia come Termopili d’Italia. La XXXV Divisione italiana fu una delle più colpite dall’attacco nemico: pur controllando solo 6 km di fronte, si abbatté sui suoi uomini il fuoco di più di 300 pezzi (di cui un’ottantina di medio calibro e una trentina di grosso calibro), seguite dal poderoso attacco del XX Corpo d’armata austro-ungarico dell’arciduca Carlo.

La notizia delle vittorie austro-ungariche seminò panico tra gli alti comandi italiani, e Cadorna ordinò la mobilitazione delle ultime leve, assieme alla creazione di una 5ª Armata che si disponesse tra Vicenza e Treviso al comando del generale Frugoni. Per prendere parte alla difesa del Paese arrivarono uomini da tutta Italia; furono coinvolti anche 120 battaglioni già impegnati sull’intero fronte isontino, spostati con una complessa e magistrale operazione logistica che coinvolse l’intero Veneto settentrionale. Vennero allestite sette divisioni di riserva, di cui una composta di uomini rimpatriati in tutta fretta dall’Albania e dalla Libia. Cadorna richiamò anche l’attenzione degli alleati russi, impegnati sul fronte in Galizia, affinché lanciassero un’offensiva di larga scala approfittando della minore copertura ungherese sul fronte orientale: se era vero che alcune divisioni si erano spostate in Tirolo a partire da quelle posizioni, alcuni vuoti di guardia dovevano essere rimasti.

L’altopiano di Asiago divenne teatro di combattimenti asperrimi, poiché mancava di appoggio sulla destra, vista l’evacuazione verso Ospedaletto. Su 5 km di fronte aprirono il fuoco più di duecento pezzi d’artiglieria, di cui venti di grosso calibro. Il III Corpo austro-ungarico sorpassò le difese italiane e occupò Arsiero, zona più avanzata di conquista, e Asiago tra il 27 e il 28 maggio; la resistenza, ridotta all’orlo meridionale della conca di Asiago, non riuscì a impedire la caduta di Gallio, prospettando agli austro-ungarici uno sbocco sull’alta pianura vicentina. Il forte Corbin, pur non essendo operativo (la presenza di cannoni era solo simulata), venne fatto saltare per non lasciare la struttura in mani austro-ungariche.

Cadorna a questo punto lavorò in modo pedissequo e preciso: preparò un accurato piano di ripiegamento delle unità isolate e sbandate, sostituì attraverso continue e puntigliose ispezioni quei comandanti che manifestavano evidenti segni di cedimento o depressione, evitò il panico (suo e altrui) quando gli austro-ungarici, premendo in modo tremendo dalla val di Posina all’Altipiano dei Sette Comuni, presero il Monte Cengio. Il 2 giugno venne ordinata la controffensiva: la 1ª Armata di Pecori Giraldi sarebbe avanzata nell’altopiano d’Asiago, dove le linee di rifornimento austro-ungariche non raggiungevano più le prime linee proprio a causa della formidabile avanzata delle due settimane precedenti. Il disegno di Cadorna era quello di aprire il fronte al centro, sugli altipiani, e aggirare le forti compagini laterali in Valsugana e Val Lagarina. Gli austro-ungarici però tennero bene, anche grazie a un fronte d’attacco che si faceva sempre più stretto e alla solita, cronica mancanza di artiglierie da parte italiana.

Non solo, ma essi tentarono, da fine maggio alla metà del mese di giugno, degli estremi tentativi di sfondamento sulle prealpi vicentine: gli imperiali attaccarono ancora molto duramente e reiteratamente, ma senza successo, il monte Zugna ed il passo Buole in Vallarsa; ed il monte Lémerle (a Cesuna – Altopiano di Asiago), tentando anche di forzare lo sbarramento della Valdastico e di insidiare l’ultima linea di difesa attestata sui monti della Val Leogra, prima della pianura. I monti Novegno, Ciòve e Brazòme, nel territorio di Schio, furono il teatro sanguinoso degli ultimi cruenti assalti della Strafexpedition, che andava così – lentamente – esaurendosi, soprattutto per motivi strategici.

Il 4 giugno dalla Russia partì un’offensiva su larga scala che sovrastò le sguarnite linee austro-ungariche, prive di qualunque rimpiazzo da parte tedesca. Il rapido e precoce ripiegamento delle linee austro-ungariche richiese l’appoggio e l’intervento di rinforzi, che potevano confluire solo dal Tirolo. L’avanzata italiana, costante pur nella sua lentezza, minacciava i capisaldi laterali e, per evitare ulteriori perdite di uomini e mezzi, il 15 giugno Hötzendorf ordinò il ripiegamento su basi prestabilite e già pronte.

Approfittando di un rallentamento dell’avanzata italiana, attardata dalla mancata copertura di artiglierie da montagna, il 25 l’arciduca Eugenio dalla sede di Campo Gallina ordinò la rottura del contatto, attestandosi sulla linea: Zugna, monte Pasubio, monte Majo, val Posina, monte Cimone, val d’Astico, val d’Assa fino a Roana, monte Mosciagh, Monte Zebio, monte Colombara e Ortigara. Gran parte delle nuove linee – tranne rare eccezioni – erano a una manciata di chilometri davanti a quelle prima della battaglia. Il 27, Pecori Giraldi interruppe qualunque azione controffensiva, essendo evidente il bisogno di un riordinamento operativo e organizzativo delle linee italiane.

L’alto numero di perdite su entrambi i fronti, nonché il furore di alcuni scontri, determinarono l’avvio di una serie di considerazioni tattiche, strategiche e politiche. Tatticamente, era ormai consolidato l’uso di massicci sbarramenti di artiglieria per colpire le difese e sconquassare le compagini avversarie, e gli Altipiani evidenziarono quanto fosse efficace se si era in grado di colpire un nemico sguarnito.

Eppure, queste straordinarie battaglie di materiale stavano dando, come a Verdun, risultati molto scarsi, e i principi che regolavano un conflitto così strutturato non sarebbero cambiati fino all’invenzione, tutta tedesca, del Blitzkrieg. Strategicamente, le perdite lasciarono il segno. In Italia, si diffuse la psicosi dell’invasione da parte degli austro-ungarici, i quali, come provato da questa battaglia, si erano mostrati capaci di sconvolgere le aspettative dei comandi italiani: se era stato necessario mobilitare uomini da tutto il Paese per fermare l’avanzata nemica, era ovvio che i comandi militari avevano appena concluso un periodo di eccezionali sottovalutazioni di chi stava dall’altra parte del fronte. Ne sia a riprova la disposizione delle forze italiane lungo la frontiera del Tirolo, sulla quale si collocavano 400.000 soldati: lo sforzo per mantenerli avrebbe rimesso a dura prova le capacità logistiche del personale generale italiano, soprattutto in prospettiva della successiva battaglia in Venezia Giulia.

L’Austria-Ungheria, presa com’era da due fronti in cui infuriavano battaglie cruente e dopo il ripiegamento in Tirolo, non sarebbe più stata in grado di sferrare campagne offensive senza l’aiuto tedesco; peraltro, l’aiuto tecnico-tattico tedesco sarebbe stato determinante nello sfondamento operato a Caporetto. Politicamente, i più grandi sconvolgimenti si ebbero in Italia. Benché il disastro fosse stato quasi miracolosamente evitato, la Strafexpedition provocò una grave crisi politica. A livello popolare, aveva destato grande scalpore la morte o la cattura (e la conseguente esecuzione) di alcuni tra i più illustri e conosciuti personaggi dell’irredentismo italiano, quali Fabio Filzi, Damiano Chiesa, Cesare Battisti, Nazario Sauro, ed anche quella di Enrico Toti. La vita e la morte di questi personaggi avrebbero guidato, in Italia, molte delle campagne d’arruolamento e molta parte della letteratura propagandistica del periodo.

A livello istituzionale, il Presidente del Consiglio dei ministri, Antonio Salandra, stava per prendere a pretesto l’attacco austro-ungarico per sollevare Cadorna dal comando, ma il 10 giugno 1916 perse l’incarico a seguito di un voto di sfiducia. Prese il suo posto Paolo Boselli, decano della Camera, il quale aumentò il numero dei ministri per una manovra politica atta a soddisfare il maggior numero possibile di capigruppo e creare un governo quanto più unito possibile; eppure, le capacità decisionali del Parlamento italiano ne risultarono ancor più indebolite. Come Ministro degli affari esteri rimaneva Sidney Sonnino. L’entusiasmo seguito alla presa di Gorizia nel corso della Sesta battaglia dell’Isonzo portò a una decisione che Salandra aveva accuratamente evitato: il 27 agosto venne consegnata agli ambasciatori dell’Impero Germanico la dichiarazione di guerra, che di fatto integrava nel conflitto mondiale quello che fino ad allora era rimasto un regolamento di conti con l’Austria-Ungheria.

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