14 luglio 1948: Antonio Pallante spara a Palmiro Togliatti

Il 14 luglio 1948 Antonio Pallante, studente universitario, spara 4 colpi di pistola a Palmiro Togliatti, di cui 3 lo colpiscono. L’attentato a Togliatti causa gravi disordini, che secondo i giornali dell’epoca sfiorano la guerra civile.

Antonio Pallante era figlio di un appuntato del Corpo Forestale dello Stato di stanza a Randazzo, Carmine Pallante, e di Maddalena Milloro, da giovanissimo frequentò per quattro anni, dopo le elementari, il seminario di Cassano Ionio che poi abbandonò, poi di nuovo la scuola pubblica divenendo un membro della Gioventù Italiana del Littorio; all’epoca dei fatti era uno studente di giurisprudenza. I conoscenti e i famigliari lo descrivevano come “mite e ubbidiente, però un po’ nervoso, si adirava quando era contrariato anche nelle più piccole cose”.

Politicamente attratto dalle idee liberali (fu presidente della sezione di Randazzo del Blocco Democratico Liberal Qualunquista, una formazione fuoriuscita dal Fronte dell’Uomo Qualunque, partito liberal-conservatore ispirato all’antipolitica), considerava particolarmente pericolosa per il paese la politica filo-sovietica del Partito Comunista Italiano, di cui all’epoca Togliatti era segretario.

Dalle lettere personali inviate dal carcere e nei verbali dopo l’arresto seguito all’attentato, emerse in seguito una personalità confusa e tormentata, passata dalla militanza giovanile fascista, in ambito scolastico, all’iscrizione al Partito Liberale Italiano nel 1944 (che giudicava però “troppo conservatore”), dalla temporanea vicinanza al Movimento Sociale Italiano fino alla volontà, in un breve periodo, di fare il giornalista addirittura per il quotidiano comunista l’Unità, proprio per l’area politica che avrebbe in seguito detestato di più; nella maggioranza delle lettere Pallante ribadisce il suo fortissimo anticomunismo, lamentandosi di essere considerato perciò un fascista nel paese natale.

Deciso (apparentemente di propria iniziativa, senza concertarsi con altri) ad eliminare il pericolo rappresentato dal “Migliore” (il soprannome di Togliatti), comprò con pochi soldi (1.500 lire al mercato nero) una vecchia pistola calibro 38 (precisamente un revolver a tamburo con cinque colpi, di marca Hopkins & Allen o Smith & Wesson a seconda delle fonti), in buono stato, e cinque pallottole di tipo scadente e con una possibilità di penetrazione assai limitata. Proprio a tale “armamentario” inadeguato si deve probabilmente la sopravvivenza di Togliatti.

Partì dalla Sicilia per Roma, raccontando alla famiglia che andava a dare degli esami all’Università di Catania, nella mattinata del 14 luglio 1948, e si appostò presso una uscita secondaria della Camera dei Deputati, in via della Missione, nei pressi di Montecitorio, attendendo il suo obiettivo (dopo aver cercato di avvicinarlo in molti altri modi: inizialmente, Pallante spedì a Togliatti un biglietto con la richiesta di un appuntamento, ma non ebbe risposta).

Quando vide Palmiro Togliatti, che stava uscendo in compagnia di Nilde Iotti, esplose contro di lui quattro colpi, di cui tre colpirono il bersaglio.

Pallante davanti al procuratore Giuseppe Aromatisi il 18 agosto affermò: “Mi stavo dirigendo verso il portone di via della Missione per chiedere da dove fosse uscito l’onorevole Togliatti, quando lo vidi venirmi incontro attraverso la porta a vetri. Avanzai per colpirlo di fronte, ma non feci in tempo ad estrarre la pistola e ad abbassare il grilletto. Ebbi l’impressione che il mio gesto fosse stato notato dallo stesso Togliatti, e per un momento rimasi perplesso e come intontito. In questo tempo mi passò innanzi e mi superò e io, superato il momentaneo smarrimento, lo seguii, estrassi l’ arma e gli sparai”.

Come risulta dalla perizia medico-balistica, una delle pallottole sparate da Pallante colpì Togliatti alla nuca (all’epoca si disse che lo aveva solo sfiorato), ma non sfondò la calotta cranica, schiacciandosi sull’apofisi occipitale e rimbalzando sul selciato, poiché non era incamiciata con l’usuale lega di rame e zinco e perché in essa non era presente antimonio, utilizzato per indurire il piombo.

Gli altri due colpi non furono letali poiché colpirono l’emitorace sinistro, scheggiando una costola del leader comunista e provocando lacerazioni nei polmoni, facilmente guaribili in un paio di mesi, come avverrà. Togliatti fu operato e sopravvisse, forse evitando una possibile guerra civile o comunque aspri scontri. In seguito all’attentato vi furono disordini e morti in numerose città, con guerriglia tra comunisti, anticomunisti e forze dell’ordine. Pallante espresse dispiacere per i morti degli scontri, specie per i poliziotti rimasti uccisi nei tafferugli.

Immediatamente arrestato dopo il gesto dai carabinieri di Montecitorio (a cui non oppose resistenza, né tentò la fuga), Pallante in questura fu subito interrogato, motivando l’atto con la risposta che Togliatti rappresentava “un nemico della mia patria, un membro del Cominform al servizio di una potenza straniera”. In una lettera spiega così la decisione di uccidere Togliatti, imputandogli anche di essere responsabile morale degli eccidi contro gli ex fascisti e i non comunisti avvenuti in seguito alla guerra civile e anche dopo, al Nord: “Ho sempre pensato che in Togliatti si debba ravvisare l’elemento più pericoloso alla vita politica italiana che con la sua attività di agente di potenza straniera impedisce il risorgere della Patria. Lo ritengo colpevole quale mandante delle stragi di fascisti (rettifico l’espressione che avete usata), di italiani al Nord. Ho sempre pensato che fosse salutare per l’Italia la sua soppressione, ma solo tre o quattro mesi or sono ho concepito per la prima volta l’idea di compiere io stesso l’attentato. E a questa decisione sono stato indotto dai più recenti avvenimenti politici, in particolare la partecipazione di Togliatti al convegno comunista internazionale”.

Dalle poche e disordinate letture (gli hanno trovato nella valigia una copia del Mein Kampf di Hitler, nonostante si professi liberale, e per questo la stampa comunista accusò la destra neofascista di collusione), si capisce che ha agito da solo, spinto unicamente dalla sua confusione mentale, convinto di un’imminente invasione sovietica. Questo movente verrà confermato dal Pallante stesso, ormai vecchio, in un’intervista del 2009 al Corriere della Sera, in cui sostenne di aver realizzato l’attentato seguendo solo il proprio patriottismo e il suo sentimento anticomunista, poiché temeva sul serio un’invasione del blocco orientale, di non odiare Togliatti come persona ma di avversare solo la sua politica; aggiunse anche, come detto da subito, di non essere stato un “killer a pagamento” o su commissione, come fu accusato da taluni.

Una minoranza di storici ha invece tentato di collegare Pallante a gruppi dell’indipendentismo siciliano che lo avrebbero spinto all’attentato, in particolare fu sostenuta la sua vicinanza ideologica al leader dell’EVIS Antonio Canepa, o perfino alla criminalità organizzata, ma non vi sono prove di ciò come di nessun complotto. Lo stesso Togliatti escluse poi che fosse stata una cospirazione ad armare la mano di Pallante. All’epoca venne anche ipotizzato un complotto interno al PCI su mandato dell’Unione sovietica; su Pallante ritenuto contemporaneamente un sicario comunista, democristiano e fascista ironizzò anche il Candido di Giovannino Guareschi e Giovanni Mosca, nella rubrica Visto da destra – visto da sinistra.

Detenuto nel carcere di Regina Coeli, Pallante fu processato nel luglio del 1949 e condannato, per tentato omicidio volontario, a tredici anni e otto mesi di reclusione, ma il 31 ottobre 1953, in appello, la pena è ridotta a dieci anni e otto mesi; la Cassazione ridusse ulteriormente la pena a 6 anni circa per effetto dell’amnistia del 1953, e i pochi mesi del resto della pena gli vengono anch’essi condonati; alla fine dello stesso anno uscirà dal carcere dopo aver scontato in tutto cinque anni e 5 mesi. Scontata la pena, trovò impiego, come il padre, alla Forestale, e non si interessò mai, almeno pubblicamente, di politica.

In seguito si sposò con la compaesana Nunziatina Musumeci, ebbe due figli (Magda e Carmelo) e alcuni nipoti (uno dei quali col suo stesso nome) e lavorò anche come amministratore del condominio dove viveva, fino agli anni ’90; attualmente vive da anonimo pensionato a Catania. Ha concesso numerose interviste, richieste da giornali e riviste di solito in occasione di anniversari dell’attentato.

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