My Gravity Girls e quell’eccezione parmigiana (di Max Scaccaglia)

“E’ una coincidenza… e le coincidenze puzzano sempre di non-coincidenze!” (Dylan Dog, albo n. 81 “Johnny Freak”).

Io mi sforzo di non credere alle coincidenze, ma appena schiacciato play sui due lavori dei “My Gravity Gilrs”(“Irrilevant Pieces, Vol1 e Vol.2”) mi è scoppiato in faccia un vaso di pandora che, bene o male, noi tutti malinconici musicofili e musicolabili (figli del cambio di secolo e delle nuove incertezze sociali e geopolitiche) abbiamo nascosto in un cassetto, in un angolo della testa.

La parola chiave per aprirlo è una città: Omaha. Capoluogo di una contea del Nebraska. Tesi molto azzardata, probabilmente falsa, che mi appresto a dimostrare.

In qualche modo questa città sembra essere fulcro e catalisi di una parte fondamentale dell’espressione musicale: l’introversione.

Già Pat Metheny, che in quanto a valorizzazione folk (nel jazz) ha detto la sua, nel gioiello Bright Size Life (Ecm 1975) le dedicò “Omaha Celebration”, brano piuttosto vivace se devo dire, ma colpevole di essere nello stesso disco con la sognante, stupenda “Midwestern Night Dreams”. Non che il Midwest c’entri con Omaha, ma dopo aver sentito tonnellate di musica si tende a mescolare gli ingredienti in un improbabile mondo “fusion”. Una personale e precisa mappatura di riferimento, atta a navigazioni sonore talmente personali, che il timoniere può essere solo il nostro inconscio: oggetto appunto del lavoro in discussione.

Bandiera contemporanea dell’introversione in musica è stato senz’ombra di dubbio il “new acoustic movement”, partito appena prima del duemila e portato al grande pubblico dai “Kings of Convenience” col loro programmatico titolo “Quiet is the New Loud”. Ma i norvegesi furono solo la punta di notorietà di un iceberg la cui base aveva radici nei primi anni 90 e coinvolse quasi tutto il mondo musicale occidentale evoluto.

Da allora tutto un concept musicale è riemerso dalla polvere delle soffitte e io mi sono stupito di avere avuto l’ennesima conferma riguardo a quello che considero, più spesso a torto che a ragione, il capolavoro di Springsteen: “Nebraska” (Columbia, 1982). Nebraska, appunto. Disco in cui prima del low-fi e proprio in decisa controtendenza all’inizio degli anni 80, il Boss rinunciò alla masterizzazione pubblicando i demo chitarra, voce e armonica, in uno dei più laceranti pezzi di storia della musica, un capolavoro nitido e assoluto, degno di Steinbeck e della più alta letteratura americana.

Per aggiungere confusione al ragionamento, calzante vedrete, dichiaro ufficialmente di essere fan sfegatato dei “Red House Painters”, da sempre, dal 1992 di “Down Colorful Hill” (4AD Records) e assieme a tutto il movimento Slowcore, dai “Codeine” ai “Low”, passando per i Karate. Cosa c’entra con i “My Gravity Girl” di Parma? C’entra, c’entra. L’ha detto anche Ondarock, seguitemi, ma non é così immediato; la band in quanto a riferimenti é dura da stanare.

Se poi consideriamo che i “Red House Painters” sono di Chicago e i “King of Convenience” sono norvegesi, io, a questo punto, ho un bisogno spasmodico di forzare la “Tesi Omaha” e rientrare nel discorso. Sono all’angolo e devo tirar fuori il Jolly. Non posso perdere la faccia così… Ma la soluzione è dietro l’angolo: l’Umiltà. Mi basta ascoltare una loro intervista ed eccola servita su un piatto d’argento. Come ho fatto a non arrivarci da solo? Connor Oberst alias “Bright Eyes”. Non può essere che lui.

Autentica, indiscussa, folkstar americana. Magnifico talento naturale, profeta dell’introversione in forma canzone: figliol prodigo di Omaha (Contea di Douglas, Nebraska), dal cognome che può essere tranquillamente spacciato per norvegese o giù di lì, non approfondiamo… Ce l’ho fatta. Tutto ruota intorno al Nebraska adesso. Infatti da Omaha e dalla ormai leggendaria etichetta “Saddle Creek” usciranno dal 1998 una serie di lavori a nome “Bright Eyes”, destinati a dare nuova linfa al folk e quindi al pop di derivazione acustica. Rilanciando l’acustico, facendo riscoprire maestri dimenticati, da Tim Buckley a Nick Drake, dai Love a tutta la psichedelia folk anni 60, arrivando agli indimenticabili lavori solisti di un certo Syd Barret, del maestro incantatore Neil Young o dell’eterno Dylan di quegli anni.

Un maremoto a fine XX secolo, un cambio di sensibilità, un effetto riflessivo che investì la musica, spazzando via la mascolina forza dei tecnicismi e del volume. “Quiet is the new Loud”.

Ormai l’articolo dovrebbe essere arrivato alla fine e io non ho ancora parlato dei nostri “My Gravity Girls”. Se è per questo nemmeno dell’indietronica e del mio adorato Will Oldham (aka Bonnie Prince Billy ecc…), che in questo contesto ci sarebbero stati benissimo. Ma non è un grosso danno, infatti i nostri sono già stati oggetto di abbondanti ed approfondite recensioni: da Parmamusica (a firma dell’amico e ottimo Davide Mazza), a Rockit fino ad Ondarock: quest’ultima in particolare sinonimo di qualità e interesse da parte della critica nazionale. Nazionale ripeto.

Cos’altro dire quindi? Che già questi “Irrilevant Pieces Vol.1 e Vol.2”, usciti nel 2016, primi capitoli di una concepita tetralogia, hanno avuto il merito di risvegliare in me un mondo intero, un’emotività sonora complessa che avevo sepolto attaccata ai lavori sopra citati, tutti di grandissimo pregio artistico e valore storico musicale. Non è poco se permettete, e potrei fermarmi qui tanto è il risultato dell’ascolto.

Ma devo aggiungere che non stiamo giocando solo con un aspetto emozionale, pur profondo che sia, ma che i due dischi sono sorprendentemente maturi dal punto di vista compositivo e arrangiativo, dell’analisi testuale e della forma musicale in generale; piegando alla sensibilità dell’artista e alla visione progettuale i mezzi utilizzati. Sinonimo vero di padronanza. Privi di timori reverenziali o pregiudizi estetici, arrivano infatti a combinare elettronica dal modernissimo piglio ai violoncelli, distorsioni ad acustiche e intimiste chitarre, senza mai risultare ridondanti: funzionali ed emozionali al contempo. Sperimentatori in forma classica e classici in forma sperimentale. Sorprendentemente compatti. Sorprendentemente “Pop” nel risultato. Risultato che, a questo punto, non può essere frutto del caso, ma di un impegnativo lavoro di auto-ascolto, denso di scritture e di volute omissioni, di notevole mole a monte. Di pensiero.

Una band dal grande cuore e dal gran cervello. Un’eccezione per Parma.

Max Scaccaglia

Riferimenti e ascolti consigliati:
Bonnie “Prince” Billy – “I See a Darkness” (1999 Palace Records);
Codeine – “Frigid Stars” (1990 Glitterhouse/Subpop);
Low – “Trust” (2002 Kranky);
Red House Painters – Down Colorful Hill (1992 4AD Records);
Bright Eyes – “Fever and Mirrors” (2000 Saddle Creek);
Four Tet – “Rounds” (2003 Domino);

Recensioni e materiale: http://www.ondarock.it/recensioni/2016_mygravitygirls_irrelevantpieces.htm

Contatti: http://www.mygravitygirls.com/

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