
TeoDaily – Nelle religioni abramitiche, la raffigurazione della divinità tocca aspetti cruciali del culto: proibita nell’ebraismo e nell’islamismo, nel cristianesimo diventa oggetto di riflessione teologica e dogmatica intorno all’VIII secolo. In generale, la questione del conferimento a Dio di una forma visibile contrasta con i suoi attributi di assoluta trascendenza e alterità. Posso dare un sembiante a ciò che oltrepassa ogni concetto, ogni misura, ogni comprensione?
Nella società bizantina, tuttavia, l’adorazione delle immagini sacre era una pratica molto diffusa, che ad un certo momento s’impose all’attenzione delle autorità ecclesiastiche, anche a causa della crescente pressione esercitata dalla religione musulmana, che professava il più severo aniconismo (divieto di realizzare immagini, in questo caso della divinità).
A scuola si studiano le alterne vicende che accompagnarono la normazione teologica delle cosiddette icone: dal concilio di Hieria (754) che ne sancì la proibizione, a quello di Nicea (787), che ne legittimò il culto (nella forma della “venerazione”).
La storia e la fortuna dell’iconologia sarebbero proseguite con lo scisma d’Oriente (1054), per divenire un tratto fondamentale della spiritualità ortodossa.
Se nella Chiesa cattolica, ancora ai giorni nostri, l’immagine sacra è comunemente intesa come un commento o un corredo illustrativo della Parola, a Oriente l’icona possiede un valore ‘rivelativo’ paragonabile a quello delle stesse Scritture: essa è una concreta testimonianza dell’incarnazione divina. Non raffigurazione somigliante, quindi, ma proprio un annunciarsi del divino nella materia lignea e pittorica, la quale, pur non ‘contenendolo’, costituisce un tramite efficace verso di esso.
In epoca a noi più prossima, chi pervenne alle conclusioni più nette in materia iconologica fu probabilmente il filosofo, teologo, scienziato e matematico Pavel Florenskij (assassinato nel 1937 dal regime comunista sovietico). Florenskij giunse ad affermare che per svolgere la sua funzione di ‘tramite’ col divino, l’icona non può essere un richiamo estrinseco a ciò che raffigura, ma deve costituire essa stessa “un fatto di natura divina”. I pittori di icone, in questa concezione, non sono infatti gli autori delle immagini. Almeno, non come lo sono gli artigiani che realizzano oggetti d’uso, o gli artisti che compongono opere d’arte. Il loro compito è adoperarsi per rimuovere gli ostacoli che impediscono il disvelamento. E il disvelamento altro non può essere che il rendersi presente di Dio nell’immagine.
Si fa così strada il tema – centrale in Florenskij – della luce. L’icona è descritta come una “finestra” attraverso la quale l’uomo contempla il divino. La luce che si effonde attraverso di essa, che riverbera tra gli ori dei pigmenti, non è un vettore, non è il mezzo che rende possibile la visione: è Dio.

Se simili affermazioni siano compatibili con la dogmatica cristiana o se al contrario presentino rischi di grave eterodossia (sconfinando ad esempio nell’idolatria dell’immagine), e se il pittore d’icone diventi una specie di teurgo, un mago che “opera sulla divinità” per conseguire finalità proprie, è materia di dibattito tra i commentatori.
A rigore però Florenskij non cade in nessuna di queste trappole. Il secondo concetto chiave della sua analisi è quello di “simbolo”: un significante (oggetto, segno, opera) che tiene insieme immanenza e trascendenza, sensibilità e spiritualità, umano e divino, figurando il miracolo della Rivelazione e dell’Incarnazione.
L’icona, simbolo per eccellenza, è parte di questo profondo mistero ermeneutico.
Lorenzo Lasagna
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