† Vita e morte, tra Il Signore degli Anelli e Mistero cristiano (di Marcello Frigeri)

Marcello Frigeri

TeoDaily – In una delle sue pubblicazioni – la cospirazione contro la razza umana – l’oscuro scrittore weird Thomas Ligotti si chiese: cosa dobbiamo dire dell’essere vivi? Domanda su cui potremmo aprire numerosi dibattiti, ma oggi preferirei utilizzarla per guardarla di riflesso: cosa dovremmo dire, invece, dell’essere morti?

In una certa misura la riflessione potrebbe gravitare attorno alla medesima risposta che, a scanso di equivoci, avviso già essere aporetica: non saremo noi a trovare la soluzione al grande mistero della vita (e della morte), ma è nostra volontà orbitare attorno al senso di questo domandare. Lo faremo riallacciandoci a una riflessione di un grande scrittore del Novecento, che a sua volta legava il pensiero a una profonda spiritualità cristiana: John Ronald Reuel Tolkien, il cui nome ci accompagna all’intramontabile Terra di Mezzo e all’epopea del Signore degli Anelli.

Ebbene, nella mitologia tolkeniana si narra che Eru Iluvatar (equiparabile al Dio cristiano) creò gli elfi a immagine e somiglianza dei Valar, gli Dei di Arda (l’omonimo Pianeta Terrestre), conferendo loro l’immortalità.

 

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Morte come dono

In un secondo momento della creazione, Eru diede vita ai secondogeniti, gli umani, che a differenza dei primi non beneficiavano dell’immortalità. Ora si dirà: che sfiga, gli elfi immortali mentre gli umani no. È proprio così, una sfiga? Il colpo di genio di Tolkien consiste nel ribaltare il pensiero che l’uomo ha sull’essere mortale.

Noi, che ogni giorno interroghiamo la vita allontanando la preoccupazione della morte; noi, esseri fragili soggetti al fluire inesorabile del tempo; noi, dicevamo, tendiamo a evitare di porci la domanda “cosa dobbiamo dire dell’essere morti?” preferendo dimenticare che il trapasso prima o poi avverrà.
Tolkien al contrario prende la questione di petto: nella mitologia del Signore degli Anelli Eru Iluvatar conferisce agli umani “Il dono della morte”, unici tra i suoi figli.

Così scrive nel Silmarillion: “Morte è il loro destino [degli uomini, nda], il dono di Iluvatar, che, con il consumarsi del Tempo, persino le Potenze invidieranno”. Le potenze sono gli Dei di Arda (i Valar) e i primogeniti di Eru (gli elfi). Pensate un po’, un dono talmente prezioso da far invidia addirittura alle divinità immortali.

 

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L’anima nelle regioni dell’atemporalità

Perché, dunque, morire viene considerato un dono? Torniamo al principio del nostro domandare, “cosa dobbiamo dire dell’essere morti”. La risposta è nel volere stesso di Dio, giunge a noi dalle regioni ctonie del suo Mistero. Nella mitologia tolkeniana gli uomini sono solo di passaggio e il loro destino non è svelato, ma è presumibile che Eru accolga a sé le loro anime nel vuoto atemporale, privilegio non concesso agli elfi i quali, se colti dalla morte, sostano nelle aule di Mandos per un tempo imprecisato fino a fare ritorno in vita attraverso la reincarnazione.

La vita degli uomini è parte di un destino non svelato che si rivela nell’immortalità dell’anima; al contrario, la vita degli elfi è un eterno ritorno dell’uguale. Il tempo dei primi è rappresentato da una linea retta (è il tempo cristiano, che corre da un inizio alla fine), il tempo dei secondi è un circolo che corre dal principio alla fine e dalla fine al principio (eternamente).

Morte, dunque, come liberazione dalle prigioni della carne e atemporalità dell’anima.

Non è solo questo. La morte è la valorizzazione della vita. Immaginate cosa vorrebbe dire essere immortali nella carne e superare il tempo, lo spazio e il loro esistere per sempre: a un erto punto dell’esistenza l’Universo scomparirà ma rimarrà l’uomo, che vagherà senza meta e senza destino nel nulla cosmico. Ecco, benché la morte faccia paura è non di meno l’antitesi dell’eternità: o esiste l’una oppure l’altra, tertium non datur. E una cosa eterna non può dire di essere vissuta.

Marcello Frigeri

 


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