29 luglio 1900: Gaetano Bresci uccide Umberto I di Savoia

Il 29 luglio 1900 l’anarchico Gaetano Bresci uccide a Monza Umberto I di Savoia, re d’Italia.

Gaetano Bresci nacque a Coiano, frazione di Prato, il 10 novembre del 1869, figlio dei contadini Gaspare Bresci (talvolta scritto “Gasparo” o “Gaspero”) e Maddalena Godi, morti rispettivamente nel 1895 e nel 1889. La sua era una famiglia semplice ma non indigente; nel 1900 suo fratello Angiolo era tenente del Regio Esercito presso il corpo degli artiglieri di Caserta, mentre una sorella aveva sposato un affermato ebanista di Castel San Pietro Terme. Cominciò a lavorare in età adolescenziale in un’azienda di filatura e prese contatti con il mondo politico. All’età di 15 anni, già operaio qualificato, entrò a far parte di un circolo anarchico di Prato. Nel 1892 fu condannato a 15 giorni di carcere per oltraggio e rifiuto di obbedienza alla forza pubblica per aver insultato delle guardie che stavano per multare un fornaio colpevole di aver tenuto aperta la bottega oltre l’orario. Fu schedato come «anarchico pericoloso» e relegato nel 1895 (ai sensi delle leggi speciali di Crispi) a Lampedusa.

Ricevuta l’amnistia sul finire del 1896, Bresci si trasferì a Ponte all’Ania, dove trovò lavoro come operaio in uno stabilimento laniero. Nell’anno successivo ebbe un figlio da una certa Maria, probabilmente una collega, al quale Bresci, grazie al denaro prestatogli da un fratello, pagò il baliatico. Forse per evitare i doveri della paternità o per l’invito di amici che stavano partendo, decise di emigrare negli Stati Uniti, stabilendosi a Paterson (New Jersey), dove trovò lavoro nell’industria tessile, frequentando la comunità anarchica di emigrati italiani. Bresci, tuttavia, si distingueva dall'”immigrato italiano medio” in quanto parlava correttamente l’inglese, possedeva una macchina fotografica (un piccolo lusso per l’epoca) e interagiva molto con la comunità statunitense, al contrario di molti immigrati italiani (soprattutto i primi che arrivarono negli Stati Uniti) che, per motivi diversi, spesso si auto-ghettizzavano nelle Little Italy. Bresci era considerato anche un donnaiolo, molto spigliato con le ragazze, aiutato in questo anche da una discreta cultura. Tra i suoi amici e conoscenti di Paterson vi erano Ernestina Cravello, Mario Grisoni, Gino Magnolfi, nomi conosciuti nella comunità anarchica.

Negli Stati Uniti si legò all’irlandese Sophie Knieland, dalla quale ebbe due figlie, Maddalena e Gaetanina; quest’ultima sarà anche lei anarchica convinta, e dopo la morte del padre continuò le lotte per una vita migliore degli operai di Paterson (lotte peraltro già sostenute, anni prima, dal padre medesimo). Durante la sua permanenza in America, Gaetano Bresci venne a conoscenza della feroce repressione nel 1894 dei Fasci Siciliani da parte di Crispi e dei moti popolari del 1898, voluta dal governo di Antonio di Rudinì. A Milano, in particolare, a seguito dell’aumento del prezzo della farina e del pane (il cui costo cresceva da anni), il popolo insorse e assaltò i forni del pane. In quell’anno, a circa quarant’anni dall’annessione della Lombardia al futuro Regno d’Italia, dopo la Seconda guerra d’indipendenza (1859), la situazione economica era grave, tanto che in quegli stessi quarant’anni emigrarono circa 519.000 lombardi.

L’insurrezione milanese, passata alla storia come la “protesta dello stomaco”, durò vari giorni, dal 6 al 9 maggio 1898. Essa fu repressa nel sangue da reparti dell’esercito comandati dal generale Fiorenzo Bava Beccaris; nella repressione militare vi furono, secondo i dati ufficiali (sicuramente sottostimati, dato che testimoni oculari parleranno di circa 300 vittime), ottanta persone uccise, di cui solo due tra la forza pubblica, e quattrocentocinquanta feriti, dei quali ventidue furono militari; tra le vittime vi furono anche vari mendicanti che si trovavano in fila per ricevere la minestra dei frati in via Monforte, sui quali si sparò col cannone.

Bava Beccaris, per tale azione di ordine pubblico, fu insignito con la Croce di Grand’Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia dal re Umberto I, il quale per l’occasione inviò a Bava Beccaris un telegramma, reso pubblico, in cui scriveva fra l’altro che l’onorificenza gli era conferita «per rimeritare il grande servizio che Ella rese alle istituzioni ed alla civiltà e perché Le attesti col mio affetto la riconoscenza mia e della Patria». Inoltre Umberto I lo nominò senatore un mese dopo, con un decreto reale del 16 giugno 1898.

Gaetano Bresci intendeva vendicare l’eccidio, rendendo giustizia, e perciò decise di ritornare in Italia con l’obiettivo di uccidere re Umberto, ritenendolo responsabile massimo di quei tragici avvenimenti. Prima di tornare in Italia, inviò del denaro all’operaia che gli aveva dato un figlio a Prato. Una volta giunto in Italia, fu solito allenarsi presso il Tiro a Segno Nazionale di Galceti (Prato) dove poneva, distesi al suolo, dei fiaschi per il vino, allenandosi a colpire e sfondarne il fondo, facendo passare il proiettile per il collo della bottiglia. Lasciato il borgo natio, fece una serie di tappe (minuziosamente riportate negli atti ufficiali del processo).

Prima andò a Castel San Pietro Terme (dove viveva la sorella), poi a Bologna, indi a Piacenza, e infine a Milano. Qui prese in affitto una camera in via San Pietro all’Orto n. 4. Dopo pochi giorni si recò nella vicina Monza, prendendo in affitto una camera in via Cairoli, vicino alla stazione ferroviaria. Nella città brianzola riuscì a spiare per giorni i movimenti e le abitudini del sovrano, il quale – dal 21 luglio – si trovava in villeggiatura estiva nella poco distante Villa Reale di Monza.

La sera di domenica 29 luglio 1900, poco dopo le 22, a Monza, Bresci uccise il re d’Italia Umberto I di Savoia, sparandogli contro tre o quattro colpi di rivoltella (Bresci affermò di aver sparato tre volte, ma le fonti storiche non concordano in quanto, oltre ai tre nel corpo del re, venne ritrovato un quarto proiettile nella carrozza), colpendolo alla spalla, al polmone e al cuore. Pochi secondi dopo perse conoscenza e morì. Il sovrano stava rientrando in carrozza nella sua residenza monzese dopo aver assistito a un saggio ginnico, cui era seguita una premiazione presso la società sportiva “Forti e Liberi”. Il regicidio, immortalato in una celebre tavola del pittore Achille Beltrame per La Domenica del Corriere, avvenne sotto gli occhi della popolazione festante che salutava il monarca.

Bresci si lasciò catturare dal maresciallo dei carabinieri Andrea Braggio senza opporre resistenza, e fu lo stesso carabiniere a salvarlo, proteggendolo dal linciaggio a cui stava per essere sottoposto dalla folla inferocita. Poco dopo affermò: «Io non ho ucciso Umberto. Io ho ucciso il Re. Ho ucciso un principio». Il regicida, difeso dall’avvocato Francesco Merlino dopo il rifiuto di Filippo Turati (che temeva repressioni contro il PSI; durante un colloquio con Bresci in carcere, il leader socialista rifiutò l’incarico con la motivazione che “non esercitava più da 10 anni la professione”), fu processato per regicidio e condannato all’ergastolo.

La pena di morte era invece stata inflitta a Giovanni Passannante, ventidue anni prima (1878), sebbene l’attentato contro il re fosse fallito. La condanna era poi stata commutata in ergastolo per la grazia concessa dal re Umberto. All’epoca del regicidio di Monza (1900) la pena di morte era già stata abolita dal Codice Zanardelli, nel 1889, tranne per alcuni reati militari. Il dispositivo della sentenza affermò di condannare «…Bresci Gaetano alla pena dell’ergastolo, di cui i primi sette anni in segregazione cellulare continua, all’interdizione perpetua dei pubblici uffici, all’interdetto legale, alla perdita della capacità di testare, ritenendo nullo il testamento che per avventura fosse da lui stato fatto prima della condanna».

A differenza di quanto era avvenuto per Passannante e Acciarito, perfino Cesare Lombroso affermò che in Bresci non vi erano segni di patologia o tratti criminali (secondo la pseudoscienza dell’epoca), sostenendo che “la causa impellente sta nelle gravissime condizioni politiche del nostro paese”.

Gaetano Bresci fu recluso dapprima nel carcere di San Vittore, a Milano, poi, subito dopo il processo, nel carcere di Forte Longone, a Porto Azzurro, sull’isola d’Elba, in una delle venti celle che formano la sezione d’isolamento denominata “la Rissa”, sotto una finestra della quale egli scrisse “la tomba dei vivi”. Alle ore 12 del 23 gennaio 1901, dopo un trasferimento via mare sull’avviso Messaggero della Regia Marina, Bresci fu rinchiuso nel suo ultimo domicilio. Per poterlo controllare a vista venne edificata per lui una speciale cella di tre metri per tre, priva di suppellettili, nel penitenziario di Santo Stefano, presso Ventotene (Isole Ponziane). Il suo numero di matricola era il 515.

Bresci indossava la divisa degli ergastolani con le mostrine nere, che indicavano i colpevoli dei delitti più gravi. I piedi erano avvinti in catene, e doveva effettuare l’ora d’aria su una terrazza isolata, quando gli altri detenuti erano nelle celle, per evitare possibili comunicazioni con gli stessi (che effettuavano l’uscita giornaliera nel cortile sottostante). Ogni giorno riceveva il vitto di spettanza: una gamella di zuppa magra e una pagnotta. Aveva facoltà di acquistare generi alimentari allo spaccio, ma si avvalse raramente di questa concessione. Delle sessanta lire depositate presso l’amministrazione dell’ergastolo (e spedite dall’America dalla moglie) riuscì a spenderne meno di dieci.

Il comportamento del detenuto fu giudicato tranquillo, normale. Bresci ricevette la visita del cappellano del carcere, don Antonio Fasulo, ma rinunziò al conforto della conversazione. Si fece dare una Bibbia, che leggeva ogni tanto, e poi, tra gli scarsi volumi della biblioteca carceraria (Bibbie, una copia delle Vite dei Santi e pochi dizionari), scelse un vocabolario italiano-francese. Il testo verrà trovato aperto, nel pomeriggio del 22 maggio 1901, quando il direttore del carcere constaterà la sua morte.

Contemporaneamente, a Parigi, si ebbe notizia di rapporti fra Maria Sofia di Borbone, detta romanticamente la Regina degli Anarchici, con Errico Malatesta, rapporti probabilmente solo di conoscenza, viste le simpatie politiche dimostrate dall’aristocratica nei confronti dei “sovversivi” (la regina si avvicinò agli anarchici solo per incitarli a compiere attentati contro i Savoia, al fine di recuperare il Regno delle Due Sicilie, non certo per sincero interesse).

Benedetto Croce affermò, sbagliando l’anno (riporta il 1904 anziché il 1901) che l’ex regina volesse organizzare con Malatesta l’evasione di Gaetano Bresci, circostanza però smentita dal pensatore anarchico. Frattanto, nel Governo, si temeva un’azione degli anarchici per liberarlo, mentre l’avvocato Merlino preparava le carte per una revisione del processo, al fine di ottenere una riduzione della pena, nonché il trasferimento in un carcere meno duro, approfittando della presenza di un governo più tollerante, quello di Giuseppe Zanardelli (Merlino aveva già tentato di ottenere una pena bassa al processo, giustificando il gesto di Bresci come “violenza privata contro la violenza dello Stato”).

Il 22 maggio 1901, l’ufficio matricola della Regia Casa di Pena di Santo Stefano registrò la morte del detenuto «Gaetano Bresci fu Gaspero, condannato all’ergastolo per l’uccisione a Monza del re d’Italia». Alle ore 14:55 il secondino Barbieri, che aveva l’incarico di sorvegliare a vista l’ergastolano, ma che si era allontanato per alcuni minuti, scoprì il corpo del Bresci, ormai cadavere, penzolare dall’inferriata alla quale il recluso si era appeso per il collo mediante l’asciugamano in dotazione o, secondo altri, un lenzuolo.

Accorsero sia il direttore del carcere, cavalier Cecinelli, sia il medico, ma soltanto per constatare il decesso. Bresci non aveva dato segni di depressione, né di volontà suicide, nei giorni precedenti. Le circostanze della sua morte destarono subito perplessità. Voci circolate da cella a cella, e presto uscite dal penitenziario, avvalorano un’ipotesi alternativa.

Tre guardie avrebbero fatto irruzione nella cella, avrebbero immobilizzato il Bresci buttandogli addosso una coperta, e poi lo avrebbero massacrato a pugni. Nel gergo carcerario questo trattamento è chiamato “fare il Sant’Antonio o santantonio”, con lo scopo di punire i riottosi. La pratica spesso si rivelava mortale. Sandro Pertini, per esempio (detenuto al carcere di Santo Stefano durante il ventennio fascista), sostenne, nell’aula dell’Assemblea Costituente (nel 1947), che Bresci era stato ucciso in questo modo.

Un “delitto contro lo Stato” sarebbe stato dunque punito con un “delitto di Stato”. Secondo i medici che effettuarono l’autopsia, il corpo era in stato di decomposizione, e perciò appare difficile che fosse morto da sole 48 ore. Vi sono incertezze anche sul luogo di sepoltura: secondo alcune fonti, Bresci fu seppellito assieme ai suoi effetti personali nel cimitero di Santo Stefano; a tal proposito, si veda la testimonianza di Luigi Veronelli, che disegnò una mappa, basandosi su alcune indicazioni presenti sulle tombe. Secondo altre ipotesi, viceversa, il suo corpo fu invece gettato in mare.

Molte tombe del cimitero del carcere (usato come confino durante il fascismo) sono senza nome, anche se in seguito furono apposte nuove targhette, sempre seguendo la mappa di Veronelli. Una delle croci di legno è stata identificata come la tomba di Bresci. Le sole cose certe rimaste di lui furono il cappello da ergastolano (ma distrutto durante una rivolta di carcerati nel dopoguerra), la rivoltella con cui compì il regicidio, la macchina fotografica con i reagenti per sviluppare le foto, e due valigie di effetti personali sequestrategli nella camera in affitto a Milano; questi reperti sono conservati nel Museo Criminologico di Roma.

Alcuni misteri circondano ancora la figura dell'”anarchico venuto dall’America”, come la fantasia popolare lo aveva battezzato, e riguardano prevalentemente documenti spariti: non è mai stata trovata la pagina 515 che descriveva il suo “status” di ergastolano (nonché le circostanze della morte); nessuna informazione su di lui è disponibile all’Archivio di Stato di Roma; non è mai stato ritrovato – come testimonia un’approfondita biografia di Arrigo Petacco – il dossier che Giovanni Giolitti scrisse sulla vicenda Bresci. Qualche anno dopo la morte del regicida, Ezio Riboldi, primo sindaco socialista di Monza, fece visitare la cappella espiatoria all’allora giovane esponente della sinistra rivoluzionaria Benito Mussolini, il quale con un sasso appuntito incise la scritta: «Monumento a Bresci».

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