“Il peso della responsabilità su una generazione”

27/01/2010
h.19.00

Devo dire che non mi è mai capitato di dover intervenire in questa sede su una tematica così sensibile ed importante. Per questo spero che possiate perdonare un po’ di emozione.
Quando alcuni giorni fa il mio Gruppo mi ha comunicato che avrei avuto l’onore di intervenire in un occasione così importante come la Giornata della Memoria, colto da un attacco di ansia mi sono precipitato su internet a cercare altri interventi analoghi fatti in occasione simili in giro per l’Italia.
Poi ho deciso che avrei provato a fare una cosa diversa.
Vorrei provare a dimostrare come a me, agli altri giovani presenti in Consiglio Comunale, a chi ha la nostra età, alla nostra generazione in definitiva,sia toccata in sorte una grossa responsabilità.
Io penso che la mia, la nostra generazione abbia una responsabilità storica. Debba avere consapevolezza di essere decisiva per la trasmissione e il mantenimento del ricordo di tutto quello che è stato un secolo, per tanti versi drammatico, come il Novecento.
E avendo chiaro che sarà sola, nel giocare questa difficile sfida.
Provo a spiegarmi meglio.
Alcune settimane fa mi è capitato di riflettere profondamente sul tema del RICORDO.
La mia famiglia è stata colpita da un grave lutto. La scomparsa di mia nonna materna, oltre a toccare profondamente mia madre, è stata per me la fine di un epoca, essendo lei l’unica dei miei nonni che era ancora in vita.
Nelle settimane precedenti, con l’aggravarsi delle sua condizioni di salute, mi ero preoccupato che non venissero perse le sensazioni, i ricordi, le emozioni di chi aveva vissuto sulla sua pelle il peso di una dittatura, della guerra, della fame.
Per questo, forse sentendo che non avrei avuto ancora tanto tempo per farlo, appena prima che mia nonna morisse registrai con lei alcuni video, in cui mi raccontava quello che fu la sua vita durante i drammatici anni in cui il nostro paese era devastato dal Fascismo e dalla guerra.
Feci questo perché capii che un patrimonio immenso rischiava di andare perduto.
Feci questo nel tentativo di “salvare” qualcosa. Nella consapevolezza che chi arriverà dopo di noi non avrà la fortuna che ho avuto io, e i miei genitori prima di me , di poter sentire in prima persona da chi aveva vissuto esperienze terribili come quelle, ciò che avevano sentito, provato e vissuto. Soprattutto perché i miei figli non avranno la possibilità, come l’ho avuta io, di vedere le espressioni dei loro visi mentre le raccontavano.
Dicendo con gli sguardi molto di più di quello che sapevano esprimere a parole.
Le stesse considerazioni mi sono venute in mente alcuni giorni fa durante una delle mie periodiche visite ad una delle eroine della Resistenza parmigiana.
Mi ricordo che il più duro e profondo “incontro” che ebbi con la tragedia dei campi di concentramento e con la Shoah fu quando lei mi raccontò di suo fratello, ritornato, unico superstite della sua famiglia, da un campo di concentramento dopo la guerra.

Lei visse i drammi, i lutti e le asperità di anni di clandestinità sui monti, lontano dalla famiglia e dal suo compagno, lottando per la liberazione del nostro paese senza sapere cosa succedeva a famigliari e amici.

Ma i momenti in cui più forte è la sua la commozione sono quelli in cui ricorda l’immagine di suo fratello appena tornato dopo la Liberazione.
Un uomo partito per quei campi allestiti dai Nazisti giovane, nel pieno delle forze.
E tornato da Lei vecchio. Stanco. Malato. Devastato nel corpo e nell’anima.
Come gli disse piangendo e con le mani tra i capelli il medico che lo visitò al suo ritorno, che dimostrava almeno trent’anni in più di quelli che aveva anagraficamente.
La prima volta che mi raccontò questa esperienza drammatica mi rimarrà per sempre impressa nella memoria.
Mi rimarrà impressa perché potei vedere nei suoi occhi tutto il dramma che lei visse nell’accudire e curare un fratello distrutto dalla tragica esperienza che aveva vissuto.
Io ho avuto la fortuna di poter vedere con i miei occhi le persone di cui ho parlato. Di poter “conoscere” e “sentire” le loro emozioni direttamente da loro. Senza filtri.
E’ qui che sta il nocciolo della sfida che la mia generazione deve affrontare in prima persona. E di cui deve sentire tutto il peso e la responsabilità.
La generazione che verrà dopo di noi, quella dei nostri figli, sarà la prima che molto probabilmente, salvo alcuni rarissimi casi, non potrà vedere, parlare, confrontarsi con i protagonisti di quella drammatica pagina della storia dell’umanità.
Sarà la prima che non potrà vedere i volti segnati dalla sofferenza. Gli occhi ancora attraversati dall’orrore.
Toccherà a me spiegare ai miei figli quello che è stato per la loro bisnonna mantenere tre figlie, senza un marito mandato al fronte dai fascisti, durante la guerra dopo che la loro casa fu “ripulita” dai seguaci di Mussolini di tutto quello che mio nonno aveva lasciato perché potessero affrontare l’inverno con qualcosa da mangiare.
Spetterà a me raccontare ai miei figli cosa è stata la Shoah e cosa è stato l’internamento nei campi di sterminio.
Starà a Noi trasmettere tutto quello che è stato. Senza l’aiuto dei protagonisti. Siamo noi ad avere la grande responsabilità di trasmettere l’esperienza di una pagina della storia dell’umanità che non vogliamo mai più si possa ripetere. E lo dovremo fare da soli. Soli con il nostro patrimonio di ricordi.
Solo una cosa ci potrà venire in aiuto. Le visione di quello che è rimasto di allora.
E per spiegarmi mi perdonerete se ricorrerò ad un altro aneddoto personale. Alcuni anni fa, mentre ero Segretario di organizzazione politica giovanile, organizzammo una visita di due giorni a Monaco di Baviera e al vicino campo di concentramento di Dachau.
In quel gruppo, fatto da ragazzi intorno ai vent’anni, vi era il fratello Quattordicenne di una mia amica, con la sua ragazzina.
Il loro silenzio, i loro sguardi pieni di orrore quando videro i forni, mi colpirono tantissimo.
Erano espressioni che segnavano, forse per la prima volta, una vera consapevolezza di quello che lì era successo. La visione “fisica” di quell’ambiente aveva creato una consapevolezza molto più forte di quella che si poteva creare attraverso convegni, libri, documentari o film.
Per questo dovremo continuare a portare classi di studenti ogni anno a Dachau, Birkenau o Auschwitz. La visione diretta, senza intermediazioni, dà più frutti di qualsiasi iniziativa.
A Noi che abbiamo responsabilità istituzionali spetterà il compito di continuare a trovare le risorse perché questo possa avvenire, ovunque e in qualunque modo, affinchè sempre maggiore sia il numero dei ragazzi che avranno questa opportunità.
Avviandomi alla conclusione, penso quindi che a Noi giovani adulti competa rispondere a quella sfida della memoria che vi citavo prima.
Una sfida del quale dobbiamo sentire il peso, ma anche l’onore.
Una sfida che dobbiamo vincere. Per le nostre radici, per la storia che abbiamo alle spalle.
Per le generazioni che verranno dopo di noi, perché nessuna di loro debba più vivere quello che noi abbiamo vissuto nei ricordi di chi ci ha preceduti.

lombatti_mar24