Forza e limiti dello Stato Islamico

30/03/2015

Mosul, Iraq settentrionale, e’ occupata da duemila dei 30.000 effettivi di cui secondo dati dell’intelligence americana l’ISIS disporrebbe. Qui ad Aprile una forza di 25.000 uomini dell’esercito iracheno, supportata dall’aviazione americana, droni da combattimento e ricognizione senza pilota, truppe curde ed unità delle forze speciali USA, sferrerà un attacco per riprendersi la città, attorno alla quale da mesi i fondamentalisti avrebbero subito migliaia di perdite in continui bombardamenti. Il Pentagono vede l‘operazione come l’inizio della fine dello Stato Islamico e in modo premeditato diffonde la notizia dell’imminente offensiva per intimidire l’avversario.
Nonostante i successi militari che hanno permesso all’ISIS di ritagliarsi un territorio dove governare con la creazione di un califfato – non riconosciuto dagli altri stati mediorientali, né dalla maggior parte della comunità musulmane nel mondo – governato da Abu Bakr al-Baghdadi, il vero trionfo dell’ISIS è costituito da un boom mediatico in crescente ascesa.
Per molti jihadisti l’ISIS rappresenta un’organizzazione forte a cui rifarsi in seguito al declino di al-Qaeda. Dopo la morte nel 2011 dell’iconico bin Laden, a cui è succeduto al-Zawhiri, sono i sanguinari e temerari combattenti dell’ISIS gli unici che hanno saputo dimostrare di voler riportare in vita le visioni mediaveli dei predicatori della guerra santa contro gli infedeli. Occorre però fare attenzione, perché, nonostante tutte le minacce di morte e distruzione all’occidente, l’ISIS finora ha dimostrato interesse solo ad organizzare uno stato nelle valli desertiche fra Siria ed Iraq dove si è insediato. L’attacco all’occidente rimane l’obiettivo di al-Qaeda nei confronti della quale l’ISIS, seppur ne condivida le origini, si distingue. Mentre infatti la prima nasce e rimane una rete di cellule terroristiche, l’ISIS vuole creare una nazione.
Nelle zone assoggettate al suo controllo, amministra giustizia e decapita prigionieri quando non ottiene i riscatti per la loro liberazione. Ad esempio 200 milioni di dollari furono richiesti per la vita di due ostaggi giapponesi, 100 milioni erano stati domandati per liberare il giornalista del Global Post James Foley, mentre ben 500 milioni sarebbero quelli presi alla banca centrale dopo la conquista di Mosul nel Giugno dello scorso anno, un quinto dei quali sarebbero stati distribuiti alla popolazione nel rispetto della Shari’a – il resto dei soldi serve per pagare i mercenari e le armi. Al contempo lo Stato Islamico raccoglie tasse e dispensa servizi, applica controlli sul commercio all’ingrosso, e garantisce ai cittadini prestazioni mediche e l’istruzione.
E su questa apparente solidità di uno stato da un lato pronto ad accogliere tutti i musulmani fondamentalisti, e dall’altro a scatenare l’armageddon in nome della sacra jihad, fanno leva i capi dell’ISIS per riunire forze di cui hanno bisogno, e lo fanno con l’unico elemento che, insieme all’avversione per Israele, è finora stato il collante per tutti gli estremisti islamici: la propaganda veemente contro il grande satana americano e i suoi alleati occidentali. I leader dello Stato Islamico, rifacendosi ad un’interpretazione radicale dei testi sacri, ordinano la distruzione dei manoscritti cristiani del museo di Mosul e dei resti della città di Ninive. Si tratta di gesti di uomini convinti che, in un periodo in cui l’ISIS è militarmente in fase di stallo dopo i bombardamenti subiti dall’Agosto 2014, tali azioni renderanno giustizia a Dio, che li aiuterà nella guerra santa ed infine riserverà loro un posto in paradiso.
La radicalizzazione di precetti religiosi, come la propaganda, esprime la finalità di legittimare atti tesi a consolidare il progetto politico ed economico dello Stato Islamico. Inoltre, le opere d’arte sottratte diventano spesso merce da rivendere sul mercato nero per generare profitti necessari al califfato. Questo modus operandi ha fatto sì che a migliaia abbiano risposto da tutto il mondo al suo appello, fornendo risorse utilizzate dal califfato per i propri scopi politico-militari.
Se la propaganda ha risonanza mondiale, la guerra dell’ISIS invece si è sempre svolta in una zona ben limitata del medio oriente. Al di fuori di tale contesto, in tutti i paesi occidentali dove vi sono stati attentati – Australia, Canada, Francia e Belgio – non è stato l’ISIS ad organizzare gli attacchi, ma persone che ne hanno semplicemente rivendicato l’affiliazione richiamandosi al suo credo. Serve ricordare che la strage nella redazione di Charlie Hebdo a Parigi è stata compiuta da due uomini legati alla cellula yemenita di al-Qaeda, non dall’ISIS. Quest’ultimo, stretto ora tra Sciiti e Curdi ad est, e dalle forze siriane ad ovest, deve consolidare la presa sui territori conquistati nell’offensiva lampo dell’estate 2014, e per questo ha bisogno di nuovi uomini e mezzi. Il modo migliore per ottenerli è proprio una propaganda capace di attrarre gli interessati, dove l’ISIS promette il riscatto dell’Islam, raccogliendo fondi e proseliti.
Come forza militare l’ISIS ha dimostrato di essere proporzionalmente forte solo nel vuoto di potere dove ha saputo inserirsi ed ora risiede. In un contesto geopolitico caratterizzato dal venir meno di un potere costituito – guerra civile in Siria, destabilizzazione in Iraq in seguito alla seconda guerra del Golfo, anarchia nel retroterra libico – le sue unità, o piccoli gruppi motivati e pronti a tutto, hanno saputo collezionare rapide conquiste. Ma contro avversari determinati, disciplinati e bene armati, sostenuti da infrastrutture e governi stabili, la forza del’ISIS non è stata ancora messa alla prova. A livello ideologico l’estremismo caotico che incarna difficilmente farà presa in contesti dove la democrazia è vista come un valore fondante.
Allo stato attuale gli appelli dell’ISIS, depurati dalla vena estremista e sanguinaria, suonano come quelli delle Brigate Rosse negli anni di piombo. Seppure gli inviti dei brigatisti alla lotta al SIM possano aver trovato nuovi affiliati alla causa, la spinta alla violenza che avrebbero voluto vedere crescere nel popolo per raggiungere i propri obiettivi politici non si realizzò mai a livello di massa. In Europa finora vi sono stati solo dei singoli che inneggiando all’ISIS hanno compiuto atti di violenza in suo onore. Al momento l’organizzazione ha più bisogno di reclute da impiegare per mantenersi in vita negli scontri fra Siria ed Iraq che pensare realisticamente di aprire con esse nuovi fronti in occidente.
Vero è che la dilatazione mediatica del campo di battaglia tipica dei conflitti moderni porta la brutalità della guerra nelle nostre abitazioni in tempo zero, e questo può agire come catalizzatore per menti violente, desiderose di lanciarsi nella lotta ricreandola magari dietro l’angolo di casa. Il rogo del pilota giordano bruciato vivo, le decapitazioni di giornalisti, di volontari delle organizzazioni umanitarie, di soldati catturati, o dei 22 prigionieri copti sgozzati in Libia il cui sangue si è riversato nel Mediterraneo che bagna le coste dell’Europa, minacciata a più riprese dall’ISIS nelle ultime settimane, potrebbero spingere ad un’escalation di violenza. Le immagini inviate al mondo intero via YouTube fanno ancora una volta capire quanto l’ISIS fa nei territori controllati e laddove vi sono estremisti operanti in contesti dove regna l’anarchia – come in Libia. Questi rimangono elementi con cui i governi occidentali devono fare i conti, ricordando al contempo che questo tipo di violenza su scala molto più grande ed organizzata ha già colpito l’occidente ed è stata fermata. La follia nazifascista aveva un potere di morte infinitamente superiore a quello dell’ISIS, e come l’ISIS nelle parole e nei fatti non intendeva risparmiare nessun oppositore. Le forze responsabili di tale volontà di sterminio sono state distrutte, anche se strascichi del loro spregevole retaggio politico-culturale sono rimasti nell’Europa del secondo dopoguerra.
L’ISIS può essere sconfitto sul campo di battaglia e gli orrori che preannuncia non sono che uno spauracchio di quello che l’Italia già vide a Sciara Sciat nel 1911. Il dilemma che rimane non è tanto, o non solo, come battere l’ISIS a partire da Mosul, cosa che probabilmente avverrà se l’offensiva si svilupperà secondo le previsioni del Pentagono, e questo potrà accadere se e solo se le nuove unità recentemente addestrate dell’esercito iracheno, di cui l’ISIS in precedenza aveva avuto facilmente ragione, si dimostreranno di tempra diversa da quelle che nel 2014 si ritirarono da Mosul praticamente senza combattere. Il problema vero è cosa fare dopo, per impedirne la rinascita sotto nuove forme con cui tra pochi anni qualche portatore di un messaggio più violento di quello dell’ISIS potrebbe ripresentarsi per prenderne il posto come quest’ultimo ha fatto con al-Qaeda.
Per questo serve un approccio che superi il criterio ingannevole di volere una “guerra perpetua per avere una pace perpetua” che da troppi anni gli Stati Uniti – e in modo più riluttante i loro alleati europei – hanno fatto proprio e che lascia le radici dell’estremismo, sfruttato o demonizzato a seconda delle circostanze, libere di radicarsi e poter crescere in futuro.

Alessandro Guardamagna

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