L’omicidio di Sergio Ramelli

confartigianatomaggio

29/04/2015

ACCADDE OGGI: Il 29 Aprile 1975 dopo un’agonia durata 47 giorni moriva in ospedale a Milano Sergio Ramelli, il giovane di 19 anni picchiato a morte da un gruppo di appartenenti ad Avanguardia Operaia, formazione della sinistra extraparlamentare.
I suoi aggressori l’avevano aspettato sotto casa, nella zona di Città Studi in cui risiedeva con la famiglia. Giovedì 13 Marzo, dopo essere rientrato dall’istituto Molinari dove frequentava la sezione VJ, Ramelli venne aggredito a colpi di chiave inglese da quattro individui, mentre uno faceva da palo. Cercò di difendersi, ma non ebbe scampo.
Dopo averlo percosso ripetutamente lo lasciarono a terra in una pozza di sangue, col cranio sfondato e scapparono. Ricoverato in ospedale e sottoposto ad un complesso intervento chirurgico, Ramelli riprenderà a tratti conoscenza, ma non riuscirà a superare il trauma causato dalle gravi ferite.
Il giovane, noto per essere un simpatizzante del Fronte della Gioventù, era stato oggetto di intimidazioni ripetute a partire dall’inizio del ’75 dopo che un suo tema vertente su un argomento di attualità era stato sequestrato da studenti di sinistra e giudicato troppo “di destra”. L’elaborato venne esposto nella bacheca della scuola contrassegnato da una scritta rossa: “Ecco il tema di un fascista”.
Da allora Sergio Ramelli era diventato bersaglio di minacce ed umiliazioni al Molinari, senza che mai nessuno intervenisse in sua difesa. Il 13 Gennaio era stato circondato da 80 studenti, alcuni universitari, e costretto a cancellare con vernice bianca scritte inneggianti al fascismo apparse sui muri dell’istituto.
Durante una lezione venne prelevato a forza dall’aula e portato in corridoio, dove gli sputarono addosso urlandogli in faccia di essere un fascista. Ricevette numerose telefonate anonime in cui dall’altra parte del ricevitore si sentiva Bandiera Rossa, ed infine, poco prima del tragico epilogo, comparve nei pressi di casa sua la scritta “Ramelli, fascista, sei il primo della lista”, che rievocava lo slogan brigatista contro il giudice Sossi rapito l’anno prima.
Le intimidazioni non si fermarono neppure dopo la morte. La famiglia ricevette una telefonata piena di insulti la sera del giorno del funerale del giovane, ed altre seguiranno insistenti nei mesi successivi, al punto che i Ramelli dovettero cambiare numero telefonico. Le chiamate iniziarono allora a bersagliare i vicini di casa.
Per anni i responsabili dell’aggressione rimasero impuniti, finché nel Dicembre 1985 gli inquirenti rinvennero in un appartamento di Viale Bligny a Milano uno schedario contenente dati di migliaia di persone considerate militanti neofascisti, insieme a numerose fotografie di partecipanti al funerale di Ramelli.
L’archivio, creato nei primi anni settanta ad opera di Avanguardia Operaia e poi passato a Democrazia Proletaria, era gestito da Marco Costa e Giuseppe Ferrari Bravo, proprietario dell’appartamento, entrambi militanti della sinistra extraparlamentare.
Le indagini successive portarono ad individuare dieci persone tra organizzatori, mandanti ed esecutori dell’aggressione a Sergio Ramelli. Nel Marzo 1987 prese avvio il processo destinato ad avere un certo clamore mediatico. Il procedimento fu avviato contro Claudio Colosio, Franco Castelli, Giuseppe Ferrari Bravo, Luigi Montinari, Walter Cavallari, Claudio Scazza, tutti medici praticanti, la ricercatrice Brunella Colombelli, il consigliere di Democrazia Proletaria a Gorgonzola Giovanni Di Domenico, Antonio Belpiede, allora capogruppo del PCI a Cerignola, e Marco Costa.
Si accertò che il gruppo faceva parte del “servizio d’ordine” di Avanguardia Operaia nella facoltà di medicina dell’università di Milano. Alcuni degli imputati furono processati anche per altri episodi di violenza e, secondo la ricostruzione degli inquirenti, i due responsabili di aver inferto a Ramelli i colpi mortali furono Costa e Ferrari Bravo, che avrebbero attaccato il giovane con chiavi inglesi pesanti tre chili e mezzo, le famigerate Hazet 36, con cui gli sfondarono il cranio.
All’epoca dei fatti i due facevano parte di un ristretto gruppo conosciuto come gli idraulici, proprio per via delle grandi chiavi inglesi usate nelle aggressioni. Furono condannati inizialmente a 15 anni di carcere, mentre fu poi assolto per insufficienza di prove Di Domenico, ritenuto mandante e pianificatore dell’azione punitiva che doveva servire a fare di Ramelli un esempio per tutti gli avversari politici appartenenti alla destra.
Nel Gennaio 1990 la Corte di Cassazione rigettò la richiesta e i ricorsi della difesa, confermando le sentenze di secondo grado per omicidio volontario. Costa e Ferrari Bravo tornarono in carcere, anche per via di condanne ulteriori a quella per il processo Ramelli, mentre gli altri imputati poterono usufruire di un condono e di pene alternative per via della loro condizione sociale e della loro ridotta pericolosità.
Sergio Ramelli non era un violento. I suoi compagni lo ricordano come un ragazzo generoso, che aiutava chi era in difficoltà. La sua unica “colpa” fu quella di avere simpatie di destra e per questo fu ucciso. La sua tragica scomparsa e le modalità che la caratterizzarono dimostrano che il fascismo, prima ancora di essere un periodo storico e un modo di intendere i rapporti politico-sociali sulla base del sopruso e della violenza irresponsabile, è uno stato della mente, e come tale è proprio di chiunque vi si riconosca e vi si conformi, indipendentemente dalle etichette o bandiere di colore diverso con cui si presenta in pubblico.

Alessandro Guardamagna