INTERVISTA – Mounia El Fasi, volontaria del Centro Islamico di Parma e riferimento del Punto Rosa: “I talebani mettono in crisi l’immagine dei veri musulmani”

Hanno protestato ad Herat, provincia sotto il controllo italiano per 18 anni, per rivendicare i propri diritti a istruzione e lavoro e per chiedere di non essere abbandonate: sono le donne afghane, prime vittime del regime talebano. Molte donne sono comprensibilmente scappate dal paese per evitare un destino segnato, ma altre, membri di alcune associazioni femminili di resistenza, sono rimaste, perché convinte che nessun paese potrà mai esportare né la democrazia né i diritti delle donne e che quindi il cambiamento potrà arrivare solo dal basso, da loro stesse.
Come ha ricordato anche Papa Francesco nella giornata del dialogo interreligioso alcuni anni fa, non si può parlare di violenza islamica, perché basta leggere i giornali italiani per sapere quante donne vengono uccise da cattolici battezzati. “L’Islam non è terrorista. Non è vero e non è giusto. Ci sono gruppi fondamentalisti – ha dichiarato Bergoglio -”.

È proprio su questa confusione che si creano le distanze tra le comunità e i popoli e la situazione in Afghanistan contribuisce ad alimentare diffidenza tra le persone, ovunque. È quanto sostiene Monia El Fasi, mediatrice culturale e volontaria del Centro islamico di Parma.

A Parma dal 1998 Monia El Fasi, di origine marocchina laureanda in scienze dell’educazione, è punto di riferimento per molte donne musulmane che accedono al Punto Rosa, uno sportello di ascolto aperto a tutti, ma in particolare indirizzato alle donne in difficoltà.

Con lei abbiamo parlato di questione femminile, diritti civili e libertà.

“Come comunità abbiamo accolto a malincuore ciò che è successo, perché mette in grande difficoltà noi musulmani. In tutti questi anni nel nostro territorio abbiamo cercato di dimostrare e far emergere chi sono veramente i musulmani, perché c’è molta disinformazione e cattiva informazione c’è ignoranza su questi temi. Tutto ciò che abbiamo fatto in questi anni viene messo a rischio.

Chi sono allora i musulmani?

Non certo i talebani che sono in Afghanistan: questo lo diciamo noi come comunità e lo dice anche il mondo islamico intero. La vera spiritualità dell’Islam è la pace, non è la violenza. I talebani sono un’organizzazione terroristica che stravolge e strumentalizza le basi dei libri sacri. I fondamenti vanno studiati e interpretati, ma non lo può fare chiunque. È un gioco di politica che fa male sia al musulmano europeo che quello dei paesi arabi. In questo contesto la situazione delle donne è ancora più critica. I talebani stessi uccidono i musulmani e violentano le donne: questo non è Islam.

Non è una situazione che nasce oggi e speravamo che ci fosse un cambiamento in questi 20 anni. Personalmente penso che se le cose stanno così la colpa sia da dividere equamente fra tutti: mondo islamico e occidentale. La storia ci ha insegnato che è facile iniziare una guerra, più di difficile è chiuderla. Chi paga il prezzo più alto sono sempre i più deboli le donne e i bambini che purtroppo non hanno scampo.

Non credi che siano i popoli stessi ad autodeterminarsi e che il cambiamento non possa essere imposto da altri?

Sì, è quello che speravamo accadesse in questi anni. Con l’investimento che c’è stato sull’istruzione, sui diritti di genere, sul dialogo interreligioso, sul creare una popolazione consapevole. Ora questo si è fermato ed è stato messo in crisi tutto ciò che è stato fatto fino adesso.

Molte donne sono rimaste, anche fra quelle che avevano la possibilità di scappare.

Non è semplice, le donne sono forti ci sono donne afghane che vogliono portare avanti le loro battaglie. L’importante è non lasciarle sole. Questa è una cosa di cui il mondo islamico per primo deve occuparsi, prendere posizione e lavorare con il dialogo. Anche se personalmente ritengo che dialogare con i talebani significhi dargli importanza, ma purtroppo ora ci sono loro al governo, non ci sono alternative. Il mondo arabo deve prendere in mano le battaglie che le donne vogliono portare avanti lì.

Cosa pensi del caso di Saman, la ragazza di origine pakistana che ha pagato con la vita la ribellione al matrimonio combinato organizzato dalla famiglia?

Il rischio di cui parlavo prima è proprio quello. Tutto ciò che è stato fatto sul territorio è messo in discussione da eventi come questi. Abbiamo lavorato tanto per affrontare ed evitare queste situazioni. Per fare in modo che non accadano bisogna lavorare sulle comunità, perché ci sono anche qui in città queste problematiche. Bisogna aprirsi e affrontare il disagio dei giovani e le i rapporti complessi tra le prime e le seconde generazioni, bisogna aprire la mente alla città e dialogare con essa. Ogni comunità se rimane chiusa crea dei ghetti che diventano pericolosi sia per le famiglie che per i figli che per la città stessa. Altrimenti il rischio è che non ci sia una sola Saman, ma ce ne siano tante. I figli a volte vengono percepiti come una minaccia per i genitori perché questi ultimi sentono di perdere la propria identità e cultura. Incide anche il livello di istruzione e quanto le persone sono disposte ad apprendere e crescere. Il punto rosa è stato aperto anche per far capire che non si può crescere un figlio in una società europea come si è cresciuti nel proprio paese di origine se rimane il disequilibrio tra l’educazione ricevuta e quella del posto in cui si vive prima o poi succedono le tragedie.

Ci puoi chiarire l’utilizzo del velo e quali sono le diverse tipologie? È obbligatorio?

Dipende se si è praticanti o non praticanti. Il hijab, un foulard che copre i capelli e il collo della donna, lasciando scoperto il viso è un atto, una scelta personale, basata su un principio di consapevolezza e non deve essere di un colore preciso. C’è un versetto del Corano che dice non c’è costrizione nella religione, sempre e comunque c’è la libertà di scelta; poi molto dipende da dove si nasce e si cresce, quello incide tanto. Ci sono poi il Khimar, un mantello che copre dalla testa in giù, il niqab spesso confuso con il burqa, che è il velo che copre il volto della donna lasciando scoperti solo gli occhi. Il burqa è per lo più azzurro, con una griglia all’altezza degli occhi, copre interamente il corpo ed è un vestito tradizionale dell’Afghanistan, non religioso. In ogni caso ciascun velo è fortemente legato all’area di appartenenza geografica. 

Quali saranno le prossime attività che metterete in campo per i profughi afgani che sono in città?

A settembre riapriamo il punto di ascolto e vogliamo creare uno spazio per le famiglie per l’orientamento in città e anche per il supporto psicologico e spirituale. Siamo lavorando su questo come comunità islamica. Abbiamo già dato la nostra disponibilità alle associazioni che li stanno accogliendo.

Tatiana Cogo

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