La mostra di Robusti al Labirinto di Franco Maria Ricci: la vita è un sogno. O un incubo? (di Luigi Alfieri)

Il miglior pittore parmigiano degli ultimi decenni è uno scrittore.

Ma davvero? Sì.

La mostra di Enrico Robusti che apre domani, 26 settembre, al Labirinto della Masone di Franco Maria Ricci, luogo surreale perso nella fumosa campagna di Fontanellato, in realtà è un libro.

Una raccolta di racconti, 29 in tutto, per narrare l’uomo (e abbondantemente anche la donna) moderno, che compie il gesto più antico, mangiare, e pensa, un po’ ossessionato, alla cosa più antica, il sesso.

Perché uno scrittore? Intanto perché nel realizzare le sue opere parte dal titolo, sempre ricco di richiami letterari, in un miscuglio di comico e tragico che si scontrano di continuo, trasformando la vita in una tragedia o in una commedia (una satura alla latina, dove il sarcasmo vince sull’ironia, che però non si arrende mai), un miscuglio di pianto e riso, dolore e gioia, miseria e nobiltà. Si va da “Mistica della torta fritta: rito diffuso celebrativo del momento in cui la torta, abbandonati gli speranzosi lieviti della prima ora, diventa fritta per sempre” a “Se penso che domani dovremo pagare l’affitto avverto un senso di vertigine” a “Strombazzata funebre in onore di un vecchio salame a cui hanno mozzato la testa e per giunta obliquamente affettata” per finire con “Che grande cozzata”.

Tutto qui? No. I quadri di Robusti, come quelli di Caravaggio, si sfogliano pagina per pagina, partendo dall’alto al basso, e si scopre che l’artista, tra spirali plastiche rutilanti e deformazioni visive da incubo, non ritrae un singolo attimo della povera storia umana ma una sfilza deforme di momenti successivi, non una singola perla, ma tutte le perle di una lunga collana. Non l’essere, ma il divenire. Troppo complesso? Semplifico: non una fotografia con un obiettivo standard, ma un filmino girato con le lenti deformate e deformanti.

Un esempio? Ne “il ritorno di papi” si vede la famiglia che aspetta con gioia – finta invero – che il boss rientri dal lavoro. Ma spostando l’occhio si vede anche il momento del ritorno e, mentre l’uomo chiude la porta, nella stanza scoppia il finimondo. Addirittura il figlio ascende al cielo, il lampadario gira per la stanza, i mobili sussurrano parole incomprensibili. Poi tutto finisce e restano solo gli occhi sbarrati del cane di casa, Pilén, che in realtà sono gli occhi dello spettatore appoggiato alle pareti del museo che, sopraffatto dall’intensità della scena, cerca di capire: che quadro è? Ottimista o pessimista, spaventoso o rassicurante, divertente o spiritoso? A guardare bene Pilén, si direbbe che il quadro è la vita nella sua essenza. Con alti, bassi, drammi, fortune. Pianto, sì pianto, ma anche qualche grassa risata per tirare avanti. E tanta finzione. Perché finzione? Perché la vita stessa è un intero recitato e i personaggi di Robusti recitano la vita. E Robusti gratta dentro l’anima, fruga e scopre, nei suoi quadri, tutto ciò che è falso, che luccica ma non ha luce, che seduce senza un motivo. Scopre l’uomo – e la donna – nella sua essenza: il mangiatore insaziabile che divora la vita e vuole possedere tutte le donne (o gli uomini, se giriamo al femminile). Aggressivo, cattivo.

Allora è un misantropo? No, è un osservatore oggettivo, ma si vede che ama i suoi personaggi, ama uomini e donne (in fondo sono lo specchio di lui medesimo e di tutti noi) e li perdona ridendo e deridendo. Una bella risata grassa, qualche sorriso ammiccante, una strizzatina d’occhio vi (ci) salveranno.

E tutti quei salami, quei prosciutti, quei maiali, quei cappelleti, la torta fritta, le bollicine? Quelli? Bhé quelli sono la nostra storia, la nostra cultura. Il nostro essere uomini. L’uomo (in questo caso non credo la donna) nasce cacciatore, perché mangiatore. Nelle decine di migliaia d’anni, la carne cruda ha lasciato il posto a quella cucinata. Il percorso dal maiale al cappelletto è il percorso verso la civiltà. Il prosciutto e lo champagne sono la nostra storia e la nostra tradizione. La parte vera della vita, quella legata ai nostri bisogni primari. E a questo punto non possono mancare maschi arrapati e femmine accalorate (“in calore” è politicamente scorretto). Ecco: il cibo e il sesso sono la parte vera della vita, quella profonda. Il resto è finzione.

In fondo, cosa diceva Pedro Calderon de La Barca? La vita è un sogno e i sogni sono solo sogni. Enrico Robusti lo corregge appena. I sogni, a volte, sono incubi. Ma quando ti svegli tiri un bel respiro di sollievo.

Luigi Alfieri

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