La Torre Nera come libertà e infinito (di Marcello Frigeri)

“L’uomo nero fuggì nel deserto e il pistolero lo seguì”.

Inizia così, con un incipit folgorante e immersivo, l’epico viaggio di Roland e del suo Ka-tete (un gruppo di persone unito dallo stesso destino) alla ricerca disperata e sognante della Torre Nera, principio e fine di ogni cosa esistente e vivente. La saga di Stephen King, considerata dai molti l’opera magna del Re, si dispiega in otto volumi, ognuno dei quali è un avvicinarsi del gruppo di Roland alla leggendaria Torre Nera, che nessuno ha mai visto ma di cui tutti hanno sentito parlare.

L’opera sfugge a ogni definizione critico-letteraria: spazia dal western all’epica e dal fantasy all’horror, ed essendo stata scritta nell’arco di 30 anni – dagli anni ‘80 ad oggi – accoglie nel suo grembo diverse atmosfere e dimensioni generazionali (si pensi a quanto erano differenti i fantasy a cavallo tra gli ‘80 e ‘90: altro climax, altri tempi). La Torre Nera, imponente opera di migliaia di pagine, è prima di tutto la storia di un viaggio, un grande viaggio ai confini del nostro mondo, assuefatto dalle consuetudini e ingabbiato in giorni sempre uguali a loro stessi. Stephen King apre una crepa nella parete del mondo, la crepa è concettualmente un movimento repentino su qualcosa di immobile e granitico. Il movimento rappresenta la vitalità, la fissità invece è un nulla.

La vita-destino contro la vita-consumo

La Torre Nera, di cui nessuno ha un’immagine ma chiunque ne ha memoria, è la chiave di volta che regge tutti gli Universi e tutte le esistenze, crollasse la Torre Nera l’essere diverrebbe nulla e ogni cosa scomparirebbe. Ha più o meno la medesima funzione della Torre d’Avorio ne La storia infinita, con la differenza che la Torre d’Avorio si erge su un luogo ben preciso che ogni abitante di Fantasia può raggiungere, sì da incontrare l’Infanta Imperatrice. La Torre Nera, invece, è un principio e una fine al di là di ogni mappa o di ogni rotta, è il Logos eracliteo che regge il Tutto senza che questi possa essere visto né sentito. Dove si trovi nessuno lo sa, eppure esiste. Roland di Gilead, il nostro eroe, ha speso una vita intera alla ricerca della Torre Nera in un viaggio mistico e pragmatico lungo le terre del Tuttomondo. Noi lettori incontriamo Roland e il suo Ka-tet durante quest’epico viaggio. L’unica ragione d’esistenza del nostro eroe è raggiungere la Torre Nera, perciò il viaggio di Roland è una vita-destino. Egli ha dato un senso alla vita come il più ortodosso degli esistenzialisti: “Esserci significa scegliersi”, diceva Sartre; “La vita è progetto, la vita è possibilità”, spiegava Heidegger. Se la vita non ha senso, o se non troviamo alcun senso che soggiaccia alla vita stessa, l’unico suo senso è dargli il senso che vogliamo.

Roland è un esistenzialista che ha dato senso alla sua vita, ma è ancora di più: è un romantico, l’ultimo di una corrente impetuosa che a cavallo tra ‘700 e ‘800 ha scosso profondamente l’Europa riscrivendone il pensiero critico ed etico. Ci arriveremo, ma al momento va detto che Roland è l’eroe che si contrappone alla fissità senza scopo del mondo odierno, la crepa nella parete di cemento cui abbiamo accennato. Roland è anche l’oscurità che filtra dalla crepa e si contrappone alla luce immobile e abbagliante di un giorno sempre uguale a se stesso.

Roland è viaggio, movimento, scopo, attività pura; il suo opposto è la fissità, l’immobilismo, la ripetitività, una vita priva di scopo.

La vita-destino di Roland si contrappone alla vita-consumo dei giorni nostri. Nella vita-consumo non c’è prospettiva se non il vivere alla giornata come fosse l’ultima. Si vive e si muore ogni giorno tutti i giorni. La vita diventa consumo, e il consumo diventa vita, perché lo scopo della vita-consumo è il consumare stesso (si possono consumare anche le emozioni o le passioni). Nella vita-consumo non c’è nessun progettare, non c’è uno scegliersi, né si può parlare di destino (inteso come lo spazio entro cui si compiono i nostri scopi): il destino è un qualcosa di irraggiungibile che sta oltre l’orizzonte osservabile, ci sfugge di continuo al nostro avvicinarglisi. La vita-destino è fatta di speranza e di angoscia perché nessuno può compiere il proprio destino, nessuno può dire “Ho viaggiato fino a raggiungere il mio destino, ora sono pronto per un nuovo viaggio”. Il destino è uno solo e si compie da sé alla fine dei giorni; nella vita-consumo, invece, l’obiettivo viene continuamente raggiunto: vivendolo lo consumiamo, una volta consumato dobbiamo raggiungerne un altro, poi un altro ancora in un ripetersi di giorni sempre uguali a loro stessi. La vita-consumo ha una luce fissa e accecante, è la luce del giorno che non tramonta e che tutto mostra. La vita-destino è l’oscurità profonda grande quanto l’indefinito, la sua dimensione ci spiazza creando vertigine.

 

La vita-destino come il buio che vince sulla luce

Nel primo volume della saga (L’ultimo cavaliere) della Torre Nera troviamo questo dialogo: “Papà, Che cosa c’è sopra il cielo? Il padre risponde: l’oscurità dello spazio. Il bambino: che cosa c’è oltre lo spazio? Il padre: la galassia. Il bambino: e oltre la galassia? Il padre: un’altra galassia. Il bambino: oltre le altre galassie? Il padre: nessuno lo sa. Capisci? La dimensione [la profondità, nda] ci sconfigge”.

Ci sconfigge perché l’indefinito profondo è sempre oltre a noi (pensate alla nostra minuscola esistenza di fronte alla vastità dell’Universo: quanto ci spiazza!). Ci sconfigge ma ci fa sentire vivi. Roland di Gilead è il nostro “io” romantico che, viaggiando alla ricerca di qualcosa che non si sa bene cosa sia – la Torre Nera -, alla luce del giorno ha preferito il mistero della notte profonda e la vertigine di chi si siede sul precipizio dell’infinito. Una stanza illuminata scioglie davanti a noi la penombra e svela tutti i misteri, sotto la luce della lampadina tutto è già dato e tutto è conosciuto. Entrare in una stanza buia, benché sia una stanza conosciuta e utilizzata milioni di volte, crea vertigine perché nell’oscurità immaginiamo possa esserci qualsiasi cosa. Roland è la personificazione del buio dentro la crepa del mondo, il nostro mondo, che si fa dominare da una fissità senza progetto e senza destino.
Roland è “l’io” romantico che grazie al suo viaggio verso l’infinito (la Torre Nera) si è gettato completamente nelle profondità dell’esistenza.

La vita-destino come profondità

Quando parliamo di profondità parliamo di qualcosa che non possiamo pienamente descrivere o mettere in chiaro. Una cosa profonda, per il suo stesso modo d’essere, è qualcosa di irraggiungibile, ma non solo, è qualcosa di indescrivibile: ne vediamo l’inizio e possiamo immaginarne la dimensione vasta e siderale, ma non possiamo vedere fin dove arrivi – un Universo profondo è un Universo infinito -. La profondità ci disarma, ci squarcia perché è l’indefinito colossale che si apre dinanzi a noi, esseri finiti e limitati. La profondità è l’infinito oscuro che si apre come un abisso di fronte alla nostra minuta e fragile dimensione. La profondità, unico modo che abbiamo per descrivere l’infinito in bilico sulle pendici del suo dirupo, è attorno a noi ma, tuttavia, non ne cogliamo la vastità. Quando viaggiamo verso rotte esotiche e lontane, quando partiamo all’avventura, quando ammiriamo il volto della notte, quando ci perdiamo nella paura di un oceano in burrasca, quando siamo affascinati dai silenzi di qualsiasi mistero lo facciamo per ricercare e possedere la profondità dei luoghi lontani e delle sensazioni sconosciute a noi estranee, per assaporare il sentimento vertiginoso e instabile della profondità come funamboli sopra lo squarcio dell’abisso. La profondità è il sentimento indefinito dell’anima romantica che punta a conoscere l’infinito in ogni sua sfaccettatura ma, proprio perché tale, non potrà coglierne l’essenza e la figura, perciò rimane in estasi di fronte al suo inconcepibile fascino (al fascino della profondità), eternamente insoddisfatta di non poter far luce là dove le tenebre dominano incontrastate e vincono.

La saga della Torre Nera è l’opera sublime di uno scrittore che nel tempo più materialista dello scorso secolo, gli anni ’80, ha aperto uno squarcio sull’abisso. Lo ha fatto con una narrazione che più di tutte può esprimere al meglio l’anima romantica dell’uomo: l’epica del viaggio verso l’ignoto.

Viviamo un tempo in cui la sensazione predominante è la fissità, sentirsi immobili mentre il tempo scorre e si allontana. Il mondo, paradossalmente mai stato così veloce e foriero di cambiamenti sociali, sembra appesantito da una greve ombra di fissità che ci fa vivere lo stesso giorno tutti i giorni, sormontato dalla tecnologia che opprime, ingloba, domina e soffoca, ritmato da un giorno che è uguale a se stesso dalla mattina alla sera: ci alziamo, lavoriamo, torniamo a casa, dormiamo; ci alziamo, lavoriamo, torniamo a casa, dormiamo; ci alziamo… ad infinitum. Anche per questo ci affascinano l’epopea dei viaggi interstellari e le immagini lontane dell’Universo, sintesi assoluta del richiamo all’avventura: richiamano a sé la nostra parte di spirito romantica e la sensazione indefinita di profondità concilianti col bisogno di essere un tutt’uno con l’infinito.

La vita-destino come superamento di ogni limite (la libertà), e il cattivo-infinito

Tutto questo per dire che l’uomo ha bisogno dell’infinito, concetto che possiamo pensare ma non cogliere nella sua essenza. Abbiamo bisogno di crederci perché dà modo di spingerci sempre oltre. Se tutto è finito, se ogni cosa ha un limite non superabile, quale ambizione può essere “vivere”? Se scendesse Dio in terra e per mezzo della Verità Assoluta ci dicesse che quell’esame non potremo mai superarlo o che quel lavoro non potrà mai essere nostro, se ci togliesse la speranza del successo in qualsiasi nostro atto, che senso ha fare le cose che facciamo? “Lasciate ogni speranza voi ch’entrate” è l’ammonimento scritto sulla porta dell’Inferno di Dante. La speranza che si abbandona è la speranza della libertà: nell’inferno si accetta obtorto collo l’Assoluto Limite mai superabile, dove la libertà – anche solo di sperare – sarà sempre sconfitta. Tutti i giorni siamo alle prese con limiti imposti dalla vita, ma lottiamo in piena libertà per superarli – abbiamo speranza -. Il superamento del limite rappresenta un atto di libertà, il superamento del Limite Ultimo, ovvero il Limite oltre il quale non c’è più alcun limite (puro concetto) è la Libertà Assoluta, e si concilia con l’infinito. Se si toglie all’uomo il concetto di infinito gli si toglie il concetto di libertà e lo si condanna alla sconfitta davanti a ogni limite: lo si condanna alla sottomissione.

Tuttavia c’è una cappa sul mondo che ci schiaccia dentro il concetto di cattivo-infinito: la vita-consumo, che non è libertà ma sottomissione. Anche nella vita-consumo, apparentemente, troviamo l’infinito: consumare ogni giorno tutti i giorni senza esaurimento alcuno è un atto che può sembrare libero e tendente all’infinito, ma non è l’infinto della Torre Nera, perché la “libertà” di consumare senza alcun limite è un atto necessario per la sopravvivenza di un sistema, il sistema capitalistico, che non ammette esperienze al di fuori di esso.

Guardando la tesi da una visuale meno ampia, nella vita di tutti i giorni (nella tua che leggi o nella mia che scrivo) un cattivo-infinito è un limite mascherato da infinito, quindi una sottomissione mascherata da libertà. Uno schiavo non è mai libero perché è ingabbiato dal suo essere schiavo (limite). Stando ancora più terra terra: una persona apparentemente libera ma sottomessa all’altrui volere crede di essere libera ma in realtà vive un cattivo-infinito. Il suo limite – essere sottomessa – è mascherato dalla libertà di scegliere, di agire, di volere, di credere, è una maschera di libertà sopra le vesti della sottomissione.

La natura dell’uomo è ambire alla libertà assoluta, quindi credere e perdersi nell’infinito assoluto.

Ognuno di noi ha dentro di sé la propria Torre Nera. Si tratta solo di fare armi e bagagli, osservare l’orizzonte sconfinato oltre il quale lo sguardo si scioglie e si perde, e partire verso l’infinito assaporando il bisogno di libertà.

Marcello Frigeri

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