“Point Break” è un catalogo di imprese mozzafiato

Johnny Utah è un nome noto tra gli youtubers appassionati di sport estremi. È famoso per non aver mai avuto paura di nulla e per la tragedia che lo ha colpito e allontanato dal giro. Spinto dalla volontà di entrare nel FBI, per dimostrare le proprie capacità investigative, Johnny ritorna nell’ambiente e riesce a farsi coinvolgere dal gruppo di atleti estremi capeggiato da Bodhi. È convinto che siano loro i responsabili di alcune tra le più spettacolari rapine degli ultimi tempi, così come è convinto di aver intuito il loro piano: portare a compimento le “otto prove di Ozaki”, un percorso verso l’illuminazione spirituale che spinge la sfida fisica oltre gli umani limiti.
Armato solo di una camicia a scacchi, Johnny parte per scalare a mani nude le Angel Falls venezuelane, acchiappare le onde del decennio a Maui e volare in wingsuit dentro il vuoto pneumatico di una lunga sequenza-chiave. Volendo, non ci sarebbe stato niente di grave se un film come questo, pensato per incontrare un pubblico abituato a surfare in rete alla ricerca delle immagini più vertiginose e per soddisfare la volontà di sfoggio del regista “in macchina” (Core è anche direttore della fotografia, credito di gran lunga più importante nel caso specifico), si fosse limitato ad essere un catalogo di imprese mozzafiato, legate tra loro da una corda narrativa semplice e resistente. Invece, il copione contesta in apertura l’esibizionismo al soldo delle multinazionali, della visibilità e della vanità, e alza un’impalcatura destinata a contenere una filosofia eco-zen che non ha però l’abilità di costruire, lasciando ovunque le tracce pesanti e scomode di un evidente scheletro vuoto.
Del film della Bigelow restano solo i nomi dei personaggi: non c’è davvero nient’altro che possa collegare i due Point Break, ma anche il confronto più rapido e istintivo con i protagonisti dell’originale evidenzia le drammatiche mancanze del secondo. Là dove tra Keanu Reeves e Patrick Swayze vibrava l’incontro tra gli opposti, con la magnifica ossessione che ne seguiva, qui non c’è vibrazione alcuna, perché Bodhi è tutt’al più un Robin Hood confuso e Johnny non è nessuno: il film non gli dà modo di creare alcun legame né di passare per un attimo dall’altra parte o di subirne il fascino.
Quel che più delude, però, è l’incuria con cui, forti delle bravate sulla neve o tra le onde, gli autori trattano l’aspetto narrativo: non c’è dialogo che non urti le orecchie, non c’è ricostruzione più inverosimile delle dinamiche investigative fuori e dentro la sede del Bureau, né alcun gioco di maschere a rinnovare l’illusione e il cinema con essa.

(Si ringrazia Mymovies.it per la collaborazione)
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