Rap is Poetry: a Parma c’è un poeta e si chiama Mat Smile (di J. Masini)

Ho ascoltato Mat Smile la prima volta quasi per caso. O meglio, dopo aver letto l’approfondita e puntuale recensione di Max Scaccaglia. Recensione alla quale vi rimando (LEGGI) se avete intenzione di addentrarvi nel bosco musicale approntato da Matteo Bianconcini, alias Mat Smile.

Max ne parlava con un tale entusiasmo e una tale accuratezza che sono subito corso a cercare i pezzi di cui parlava su Youtube e Spotifiy. E ne sono rimasto folgorato.

Per una ragione molto semplice: sono scritti da dio. E mi riferisco alla scrittura vera e propria, cioè ai testi. Dal momento che non sono un musicologo, non sono un esperto o uno studioso di rap (benché, per svariate ragioni, mi piaccia molto), non pretendo di parlare di cose che non conosco bene. La mia principale ossessione è la parola: il racconto, la poesia, la sceneggiatura, qualunque cosa abbia a che fare con la composizione di un testo scritto. E Mat Smile scrive. Scrive forte, scrive spericolato, scrive poesia.

Così, parlando con Max, ci siamo detti: ‘Perché non intervistare Mat e provare a capire come scrive?’. Ed è quello che abbiamo e che ho fatto. Ci siamo incontrati in un bar, abbiamo chiacchierato e gli ho riversato addosso tutte le curiosità suscitate dai suoi lavori.

La cosa che mi colpisce molto – anche perché non è così frequente – è l’efficacia con cui hai piegato la lingua italiana a un ritmo e a una cadenza tipiche della cultura e della tradizione americana. Una tradizione, però, che ha il vantaggio di disporre della lingua inglese e degli slang che ne derivano, cioè di lingue ricchissime di forme verbali sincopate: monosillabi, verbi composti e frasali, perfetti per essere inseriti su basi molto ritmate. L’italiano ha parole lunghe, un andamento ritmico e tonale diverso, più difficili da rappare, in un certo senso. Anche se tu, in uno dei tuoi pezzi, dici che non fai rap e dopo mi dirai cosa fai, allora, di preciso.
Così, mi sono detto: non può averlo fatto solo per istinto, deve averci pensato. Usi un sacco di allitterazioni, componi i versi perché stiano perfettamente dentro battute sincopate e strette. Devi averla studiata questa cosa.

Sì, i miei testi sono ragionati. Ho sempre puntato prima di tutto sulla tecnica, nella scrittura dei testi. È così sin dagli inizi. Se vai a sentire i testi più vecchi, ad esempio Infinite, utilizza come tema la mitologia greca, ma è tutta tecnica, non ha un senso compiuto. Come Eraserhead, o come tutto il mio primo mix tape.

Essenzialmente ho sempre puntato sulla tecnica, poi ho cercato di lavorare sul contenuto. Sempre su un ritmo serrato, anche dal punto di vista linguistico, usando come base il rap. E qui rispondo a una parte della tua domanda: non considero il mio stile esattamente rap, nel senso dell’hip hop. Io faccio un’altra cosa, che potrei definire alternative rap, o alternative hip hop. Diciamo, però, che a me piace la scrittura. Mi concentro su quello, faccio uscire canzoni che provano a essere meditate, a essere pensate. L’alternative rap è quello a cui mi avvicino di più.

In che senso?

L’alternative rap utilizza strumentali. Io, nell’andamento, nella costruzione del pezzo, non lavoro soltanto sul testo, sul contenuto e, diciamo, sulla parte mia. Cerco di lavorare il più possibile anche sulla parte strumentale, di utilizzare strumentali, cioè, che sono una via di mezzo tra scuola vecchia e scuola nuova, con suoni moderni e batteria classica. Perciò, viaggio tra gli 85 e i 95 bpm, difficilmente vado più lento. In Cocaine sono andato leggermente più veloce, però non ci sono quasi mai robe del tutto classiche o robe del tutto nuove. Non ci sono le batterie trap, che magari ci saranno in futuri mix, ma saranno comunque mischiate con qualcosa di più classico.

Ma tu parti dal testo o dalla musica?

In genere parto dal testo, poi faccio in modo che la base sia più conforme possibile al testo. Ad esempio, in Cocaine, nella parte in cui faccio ‘crepare è un diletto, con le pare letale diretto’ ­– che è una specie di mini bridge in mezzo alla strofa, un mini extra bit abbastanza lento – si tolgono dei bit, dei suoni di sottofondo e si lascia solo la batteria, in modo che la voce venga completamente amplificata e si lasci spazio solo a quella, proprio perché è una parte con molte assonanze, allitterazioni e incastri. Quindi tendo a lavorare molto sia sulla tecnica che sul bit, per poi unire le due cose. È un approccio che ho sempre tentato di adottare e che è maturato col tempo.

 

 

Visto che hai evidentemente una passione per la parola e che lavori esattamente come lavorerebbe un poeta, mi piacerebbe parlare di questo. Ascoltandoti, mi sono venuti in mente gli unici che nel ‘900 italiano, da un certo punto di vista, hanno provato a slogare la lingua in maniera tanto profonda, cioè i poeti futuristi, che ereditarono la svolta dello Chat Noir di Parigi, locale in cui nacque il cabaret. E il cabaret prendeva la lingua e ci giocava, esattamente come dici di aver fatto tu nei tuoi primi pezzi, cioè senza avere intenzione di arrivare subito a un senso immediato. Costruisci con le parole un’architettura che magari non ha un senso immediato.

Ha un senso più per me che per chi ascolta.

Esatto, ma a un certo punto anche in chi ascolta si produce un senso. E non è una cosa molto usuale. Tu costruisci dal punto di vista metrico. È come se prendessi dei pattern sintattici per farli risuonare, per riprodurli fino a che non significano qualcosa. È una specie di letteratura 3.0, come l’ha definita Simonetta Collini. Ad esempio, in WKup scrivi “so ciò che non si disse, non chi visse senza fonte / tra persone crocifisse, crocifisse sulla fronte / immerso verso e perso nel senno di Senofonte”: è un passaggio tutto giocato sulle lettere s e f.

Sì. Quella probabile quartina è basata su quelle due lettere. Ma credo di aver capito dove vuoi arrivare. Diciamo che sono sempre stato appassionato di letteratura, sin da piccolo. Penso abbia contribuito anche il fatto di aver frequentato il liceo classico e non lo dico per tirarmela, dal momento che sono all’ultimo anno e non vado neanche benissimo. Leggere, comunque, mi è sempre piaciuto moltissimo, specie la poesia. E ho sempre cercato di analizzare la poesia anche dal punto di vista tecnico. Sono un grande fan di Leopardi, adoro il modo in cui, così tanti anni fa, è riuscito a sposare una tecnica eccezionale con un contenuto tanto potente.
Partendo dall’ispirazione della letteratura, della tecnica letteraria, ho sempre cercato di tirar fuori qualcosa dalla musica rap, che mi ha sempre appassionato e ho deciso che sarebbe diventato quel che volevo fare, cercando di dire qualcosa di mio. Qualcosa di diverso rispetto – non so – a Fibra, o alle cose che passavano in radio. Ho sempre voluto puntare su qualcosa di diverso e visto che mi è sempre piaciuto scrivere rime, intrecciare incastri e parole, ho cercato di metterle a ritmo e farle diventare musica. Non è sempre stato facile, soprattutto all’inizio. Anche se scrivere frasi senza incastri e senza ritmo non mi è mai piaciuto, e ho sempre cercato di usare un casino di tecnica, ignorando persino il contenuto. Poi ho cercato di evolvermi. Ad esempio, il testo che hai citato, funziona proprio così: mi piace prendere una lettera e giocare. Se prendi Daylight, tutta la prima strofa è basata sull’assonanza di a e a: “tu sei la pioggia che bagna la faccia affranta” ecc… La seconda strofa è tutta giocata sulle vocali a e i.

Ecco, quando ho saputo che stai ancora frequentando le superiori, mi è tornato in mente il periodo in cui, in terza superiore, ho studiato Shakespeare e mi ero innamorato del monologo dell’Amleto. Mi ero innamorato del modo in cui era scritto, di come suonava: “To be, or not to be, that is the question: / Whether ’tis nobler in the mind to suffer / The slings and arrows of outrageous fortune, / Or to take Arms against a Sea of troubles” e poi tutto il resto, giocato su quelle s che ti fanno sentire i colpi e i dardi che sfrecciano nel vento. Mi è venuto da pensare che tu ti sia innamorato di cose simili. E mi sono detto: ha scelto il rap perché è la musica che gli permette di usare meglio questa predisposizione.

Sì, secondo me il rap è l’unico genere musicale che ti permette di esprimere un certo tipo di testo. È difficile con altri tipi di musica arrivare allo stesso ritmo. Eminem, ad esempio, nel suo primo album ha usato un ritmo lento, ma serratissimo. Un altro che riesce a infilare una quantità pazzesca di sillabe in un verso è R.A. the Rugged Man, uno dei miei MC preferiti e uno dei più forti a livello mondiale, secondo me. Ha una tecnica che si sposa con un beat serratissimo. Io, ad esempio, ho cercato di fare un passo avanti, non usando solo incastri fini a se stessi, ma provando a dire qualcosa. È quello che ho cercato di fare con Bravo, il mio ultimo pezzo. Lì sono partito dal contenuto e poi ci ho messo la tecnica, per provare a far arrivare quel che avevo da dire a più persone possibili. Adesso sto cercando di andare ancora oltre, sviluppando uno stile ancora più personale, anche a livello di voce, di flow e di intenzionalità.

Questa cosa è molto interessante, perché è un aspetto sottovalutato, in tutte le forme compositive che hanno a che fare con la testualità, la creatività e la narrazione. Sembra che la preparazione tecnica venga dopo, da un certo punto di vista. Sembra che sia sufficiente avere delle cose da dire a livello emotivo e che in un secondo momento impari come dirle. Nel corso del ‘900 è stato spesso il contrario: molto spesso prima imparavi bene a fare le cose tecnicamente, poi, se avevi qualcosa da dire, avevi gli strumenti per dirle.

Esatto. Per me è esattamente così. Io cerco sempre di pigliare quella chiave che, anche se non comunica un senso compiuto, produce un insieme di parole che fanno lo stesso effetto della poesia o del monologo di Shakespeare che hai citato prima. Ad esempio, quando dal vivo canto “Mi pare un diletto, con le pare letale diretto” la gente dopo un po’ si mette a saltare. Ottengo un effetto spingendo su quel giro di parole. Bisogna beccare la chiave di lettura per riuscire a dare la carica solo col suono delle parole, anche se non si capisce. Per assurdo, dovrebbe arrivare anche a uno che non sa l’italiano.

Tu chi leggi? Chi sono gli autori che ami?

Ah, interessante. Di solito mi chiedono chi ascolto. Allora, io ho sempre amato Italo Svevo. La coscienza di Zeno è uno dei miei libri preferiti. Poi mi piacciono molto Le novelle rusticane di Verga, mi piace Pirandello, che avevo anche interpretato quando facevo teatro. Ultimamente leggo cose che non c’entrano con la letteratura e mi sono appassionato a temi criminali, ad esempio la storia di Cosa Nostra, e mi interessa molto la Seconda Guerra Mondiale.
Mi piacciono poesie singole, però. Mi piacciono alcune cose di Carducci, mi piace un casino La pioggia nel pineto di D’Annunzio. Amo molto anche Montale.

A volte ti succede di beccare due parole che stanno bene insieme per produrre il resto della frase? Mi è venuto in mente pensando a un verso di Cocaine, quando dici “ho l’approccio di un fantoccio se mi appoggio sopra gli altri”. È un verso che riempie la bocca e sembra nato dal modo in cui si sposano approccio e fantoccio.

Certo, mi succede spesso. A volte parto da versi incompiuti, poi trovo quella parola in più che mi permette di svoltare il senso della frase. A volte capita che trovi due parole, le ripeti e le ripeti, finché non arriva la rima e tutto il resto del verso.

Lavori come un poeta.

Diciamo che sono abituato così, non ho mai lavorato diversamente. Non so come scrivono gli altri. Mi metto lì, scrivo e scrivo, finché non riesco a farlo come vorrei. Mi è sempre piaciuto scrivere e mi sono portato dietro questa passione nel rap.

Una passione che Mat Smile trasmette coi suoi pezzi. E che mi auguro lo portino a fare tanta strada. Abbastanza strada da poter confermare una delle più lapidarie e puntuali affermazioni di Jay-Z: ‘Rap is poetry’.

Jacopo Masini

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