Sabato 1 aprile, davanti alla sezione cittadina dell’ANPI, è stata svelata una targa sui cui possiamo leggere l’iscrizione «Sezione Laura e Lina Polizzi, partigiane».
Tra la lettura delle testimonianze delle due donne fatte dalla famiglia e gli interventi di storiche, è stata ripercorsa la storia di queste sorelle con la volontà di rappresentare la storia delle partigiane, figure ancora troppo spesso dimenticate. Abbiamo intervistato Brunella Manotti, presidente della sezione ANPI di Parma, e Ilaria La Fata, ricercatrice al Centro Studi Movimenti di Parma, con l’obiettivo di scoprire la storia delle sorelle Polizzi e, più in generale, quella delle donne nella Resistenza.
Conoscevate personalmente Laura e Lina Polizzi? In che contesto vi siete conosciute?
Brunella Manotti: Ho conosciuto Laura Polizzi, “Mirka”, abbiamo collaborato insieme per molto tempo perché lei era presidente della sezione dell’ANPI di Parma e io lavoravo all’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea (ISREC). Lina, purtroppo, non l’ho conosciuta personalmente perché se n’è andata nel 1984, quando ancora non ero arrivata all’ANPI.
Ilaria La Fata: Ho conosciuto Mirka per molto meno tempo sempre nel contesto dell’ISREC. Il mio percorso è stato meno collaborativo nel senso che ho iniziato quasi subito, dopo l’Istituto, a lavorare con il Centro Studi Movimenti e lei, più ortodossa nelle posizioni politiche, ci ha sempre più visti come giovani estremisti. E’ sempre stato un lavoro collaborativo. E per Lina purtroppo siamo arrivate troppo tardi.
Spesso le donne che hanno partecipato alla Resistenza sono messe da parte, perché? E che ruolo potevano avere all’interno di quest’ultima?
BM: Per molti anni dopo la fine della guerra, la Resistenza è stata studiata solo come storia politica quindi come resistenza armata. E della storia delle donne nella guerra e nella Resistenza e dei ruoli che hanno ricoperto si cominciato a parlare con le storiche del femminismo negli anni ’70. Con la storia sociale si è riuscito sia a studiare le poche partigiane che hanno imbracciato le armi e hanno avuto un protagonismo attivo nelle brigate, che gli altri ruoli che hanno avuto. Inizia a essere studiata da qualche anno anche la parte del movimento spontaneista, che non era organizzato nella Resistenza ma che era un movimento femminile rimasto ancora di più in silenzio.
ILF: C’è anche la questione del riconoscimento. I partigiani riconosciuti sono quelli che hanno imbracciato le armi per un certo periodo di tempo, che sono stati in brigata, che possono dimostrare di essere stati negli scontri a fuoco. Quindi essere stati in brigata per un certo periodo di tempo, tre mesi, fa rientrare anche alcune staffette, che è il ruolo classico ma non tutte. Non quelle che facevano le partigiane a “mezzo servizio”, che dovevano tornare a casa perché non si volevano mescolare, anche per tabù personale, con gli uomini in brigata. Queste non sono state riconosciute ufficialmente come partigiane. Il ruolo stereotipato della donna combattente è la staffetta, che è quella che come arma non ha il fucile ma la bicicletta.
Le donne partigiane venivano considerate inadatte a certi ruoli, come il combattimento, dagli uomini?
BM: All’inizio la presenza delle donne nelle formazioni era vista con sospetto, si temeva che potesse creare disordini o distrarre dalla lotta. Poi molte donne hanno saputo dimostrare di essere all’altezza e di riuscire a gestire bene la loro presenza nelle brigate. La propaganda fascista è stata molto pesante contro la presenza delle donne nelle formazioni partigiane perché venivano presentate come donne prostitute, che non erano più sotto la tutela famigliare. C’è stata una diffamazione molto forte nei loro confronti.
ILF: È stata una fatica per quelle donne che hanno scelto di sfidare tutti i pregiudizi e gli stereotipi e provare a stare in brigata, con degli uomini che avevano gli stessi pregiudizi e gli stessi stereotipi. Erano tutti ragazzi cresciuti nella scuola fascista, che insegnava ai maschi a studiare la politica e la guerra e alle ragazze a fare i lavori donneschi. Diventa difficile uscirne.
Lina Polizzi fu deportata a Ravensbrück, un campo di concentramento esclusivamente femminile. I trattamenti nei campi femminili erano diversi da quelli maschili?
BM: Sì, ci sono delle differenze. I reparti femminili esistevano anche all’interno di altri campi come ad Auschwitz. Anche la deportazione delle donne ha delle peculiarità, perché chiaramente uomini e donne vivono la deportazione a partire dal loro genere. Questo è stato studiato tantissimo, a partire da elementi come la rasatura e la nudità, tutto quello che per le donne di allora era rivestito da un grande pudore. Anche le violenze che venivano agite nei confronti degli uomini e delle donne avevano diverse, partendo dal presupposto che la disumanizzazione è avvenuta sia per gli uomini che per le donne.
C’erano violenze sessuali contro le prigioniere all’interno dei campi?
ILF: No perché le donne non venivano considerate come tali. C’erano le prostitute, che facevano quel mestiere. Ma le prigioniere erano considerate come oggetti, cose di nessun valore, quindi i soldati non volevano mescolarsi con loro neanche sessualmente.
Perché aver deciso di chiamare la sezione cittadina in onore di due donne partigiane? E perché proprio Laura e Lina Polizzi?
BM: Siamo partiti dal presupposto che Laura Polizzi è stata presidente della sezione per diversi decenni e si è sempre occupata delle storia delle donne, ha sempre fatto il possibile per farle entrare nell’associazione. Perché per molto tempo anche l’ANPI ha declinato la storia della Resistenza al maschile, quindi lei ha lottato per portarci dentro anche la storia delle donne. Allora quando abbiamo pensato « perché non intitolare la sezione a lei? », ci siamo detti che le sorelle sono due. E la storia di Mirka è molto conosciuta a Parma per il suo ruolo politico importante. La storia di Lina invece è conosciuta pochissimo, sia per il suo carattere molto riservato che perché non ha continuato l’attività politica dopo la guerra. Quindi ci siamo detti che sarebbe stato bello mettere insieme due sorelle partigiane, che, pur provenendo dalla stessa famiglia, hanno avuto due percorsi con peculiarità diverse. Ci è sembrato bello mantenerle unite. Per la famiglia Polizzi è diventato luogo della memoria Vicolo Santa Maria, sappiamo che c’è un parco Montermini. Quindi abbiamo preso queste due donne con l’idea di riportarle a casa.
Anna Montermini