
TeoDaily – La sbornia mediatica sul conclave è finita subito.
Già un’ora dopo l’elezione di Papa Leone XIV nessun giornale o pagina social parlava più dei cardinali Tagle, Zuppi, Pizzaballa, Parolini, Sarah, Dolan i cui nomi nei giorni precedenti risuonavano ovunque nelle liste del toto-nomine, nelle infografiche sulle alleanze geopolitiche dentro la Curia, nelle mappe di “chi sta con chi“, in continuità o discontinuità con Papa Francesco.
I cardinali si prendevano le prime pagine di tutti i media del mondo: durante il conclave tutti parlavano di Tagle come il filippino progressista che cantava Immagine di John Lennon (il cui testo è un inno a un mondo senza religioni), di Zuppi, quello che aveva sempre la battuta pronta e dichiarò che avrebbe lasciato Bologna per Roma solo dopo lo scudetto dei rossoblu (leggi), di Parolin, dipinto come il Machiavelli della Curia, di Dolan, l’amico di Trump, di Sarah, l’iper-conservatore nero. I giornali avevano tratteggiato un profilo per ogni cardinale, che grazie a queste ricostruzioni mediatiche erano diventati personaggi, alcuni anche macchiette. C’è da scommettere che nessuno parlerà più di loro per i prossimi 10-15 anni, fino al prossimo conclave, come nessuno aveva parlato di loro nei 10-15 precedenti.
Dentro la Chiesa c’è pure chi si era convinto che quei titoli sui giornali e quelle schiere di telecamere nella sala stampa vaticana fossero l’evidenza di attenzione e considerazione esterne, di un risveglio della spiritualità cristiana, e che le chiese vuote, in realtà, fossero solo illusioni o visioni passate.
Invece gli occhi del mondo erano rivolti non al ruolo della Chiesa ma al rito millenario del Conclave, alle indiscrezioni e ai giochi di Palazzo veri o presunti, al decifrare il ruolo di Trump e della Cina a tirare le fila del conclave.
Leggi anche: † Chiesa e omosessualità: è Paolo, e non Gesù, a dettare la linea (di Andrea Marsiletti)
Archiviato nel dimenticatoio anche Papa Francesco, i cui dodici anni di pontificato sono stati spazzati via in baleno, quando fino a ieri era acclamato dai non credenti come un’icona pop al pari di Che Guevara e Jim Morrison.
Il problema, semmai, è che neppure si parla già più di Papa Leone XIV. Del resto in pochi giorni è stato lui a rivelare tutto di sè: no ai gay, no ai preti sposati, no alle donne, no alle riforme. Le sue parole d’ordine sono “pace” e “unità”, la prima poco più di una banalità se pronunciata da un Papa e non accompagnata da un ragionamento, la seconda una dichiarazione di equilibri interni alla Curia, come se il problema oggi fosse l’unità del clero e non l’evaporazione del cristianesimo in Occidente. Forse l’unica cosa che rimane ancora da comprendere di Papa Leone è quel suo rapporto un pò inquietante con il vicepresidente degli USA JD Vance.
Cosa dobbiamo aspettarci di nuovo da Papa Leone? Temo niente, niente di nuovo, niente di concreto. Niente di niente. Sarà un gestore, uno che vorrà essere il punto di equilibrio tra chi canta Imagine e chi vuole cantare la messa in latino.
Non sarà quindi Papa Leone un valore aggiunto della Chiesa nel prossimo decennio, credo decisivo per la sua sopravvivenza.
In assenza di un leader carismatico e di un innovatore della tradizione teologica, il rilancio della Chiesa dovrà passare, oggi ancora più di ieri, dai parroci e dalle suore della periferia, da chi vive sulla frontiera della vulnerabilità e della povertà ed è sempre pronto a offrire aiuto materiale, umano e spirituale a coloro che bussano, a compiere opere caritative, a servire nelle scuole, negli ospedali e nelle missioni, a insegnare ai bambini e agli adulti l’amore, il perdono e la solidarietà. Una Chiesa che, a mio giudizio, raggiunge il suo apice di reputazione e di ispirazione salvifica nella santità delle monache di clausura che dedicano la loro vita agli altri nella preghiera e a Dio nella contemplazione. Purissime, immanenti e trascendenti, che con le loro vite anticipano la Gerusalemme Celeste annunciata dall’Apocalisse di Giovanni.
Se ci pensiamo un attimo, la Chiesa che abbiamo vicino a casa è la parte migliore della nostra società, la più generosa, la più paziente, la più disinteressata nel compiere opere di bene, la più interessata alla vita presente e futura di ciascuno di noi.
Non c’è un motivo per non considerare la parrocchia una casa anche nostra. Lo dico in primis a me stesso.
Andrea Marsiletti