TeoDaily – Se Dio è morto nei campi di sterminio, di certo non è risorto a Gaza, dove bambini in fila per l’acqua vengono trucidati da droni “intelligenti” progettati dall’uomo. Almeno non il Dio del Nuovo Testamento, tanto per citare l’amico Andrea Marsiletti. Yahweh, Signore degli eserciti, forse si trova già più a suo agio, ma l’evoluzione della figura di Dio nei testi sacri non è materia all’ordine del giorno.
Il tema del silenzio di Dio è stato uno dei temi cardine del Novecento.
I filosofi esistenzialisti, anche e soprattutto in seguito agli orrori delle due grandi guerre, posero al centro del dibattito l’assurdità della vita, la mancanza di una percezione del divino e l’angoscia che tutto ciò comporta per l’uomo e la sua esistenza.
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Anche il cinema ha affrontato questa inquietudine. Come non citare i tre capolavori del regista Ingmar Bergman: “Come in uno specchio”, “Luci d’inverno” e “Il silenzio”, lungometraggi appartenenti alla “Trilogia del silenzio di Dio”, dove il regista svedese affronta la questione da diversi punti di vista: il disagio psichico, la depressione e l’incomunicabilità, offrendo uno sguardo profondo sulla frattura tra l’uomo e il trascendente.
A partire dagli anni ’60 in avanti, le tematiche un po’ alla volta divennero altre: la ricostruzione postbellica, il boom economico, le lotte sindacali, la liberazione sessuale, le nuove rivoluzioni tecnologiche. Temi che fecero passare in secondo piano il rapporto con il divino. Una nuova ondata di ottimismo, infine, pervase l’Occidente e toccò il suo culmine probabilmente con l’edonismo reaganiano e i ruggenti quanto vacui anni ’80.
Questa inebriante ondata ottimistica oggi sembra arrivata definitivamente al capolinea. Il Covid prima, le guerre a bassa intensità sparse per il mondo e lo spettro della terza guerra mondiale alle porte, riconducono l’uomo a ripensare all’assurdità dell’esistenza e anche a porsi ancora la domanda: “Ma in tutto questo, Dio dove sta?”
Una risposta originale e potente l’ha offerta Camus ne “Il mito di Sisifo”. Secondo Camus la vera domanda è una sola: “Di fronte all’assurdità della vita, perché non suicidarsi?”. Sisifo, condannato dagli dèi a spingere un masso per l’eternità, prende coscienza dell’assurdità della sua esistenza ma sceglie di vivere comunque, sopportando il non senso e assumendo su di sé il proprio destino. In quella ribellione silenziosa risiede la sua dignità.
Ma in pratica, come possiamo noi oggi assumerci le nostre responsabilità e superare il trauma del silenzio di Dio?
Hans Jonas, filosofo di origini ebraiche, nella sua opera più conosciuta, Il principio di responsabilità, sosteneva la necessità di un nuovo imperativo categorico che superasse quello kantiano, troppo antropocentrico, basato sulle intenzioni e non sui fatti, che non teneva conto delle conseguenze future di una nostra decisione. Jonas teorizza un imperativo categorico che mette al centro del discorso non più l’uomo ma l’idea di uomo: “Il primo imperativo categorico è che ci sia un’umanità”.
Parole da cui traspare una sensibilità prettamente ambientalista, figlia delle preoccupazioni che Jonas nutriva negli anni in cui sviluppava il suo pensiero, ma oggi più che mai attuale. Jonas supera inoltre la legge di Hume, legando l’essere di un ente al suo dover essere: l’essere, per natura, deve essere. Quindi la vita pretende la conservazione della vita. Lo scopo dell’umanità è di permettere alle generazioni future di poter vivere. Jonas sottolinea che l’essere implica il dover essere: la vita reclama la conservazione della vita.
E lo illustra con un esempio concreto: nel momento in cui due esseri umani diventano genitori, comprendono che l’essere del loro bambino esige protezione e nutrimento. In quell’istante, la responsabilità non è più una scelta, ma una necessità che nasce dalla natura stessa dell’essere.
Tornando ai bambini di Gaza, probabilmente è sufficiente l’imperativo categorico kantiano per capire che una fila di innocenti non può presentare una minaccia per nessuno: è un obbligo morale dell’Occidente permettere che siano adeguatamente nutriti e accuditi, imperativo che riguarda esclusivamente l’uomo.
Paolo Mori