Violenze e molestie sulle donne, i corpi delle donne sono considerati a disposizione. I commenti di alcune politiche parmigiane e del sociologo Deriu

di UG

Molestie in diretta tv, violenza e tentata violenza su un treno in pieno giorno.

Questi alcuni dei più recenti eventi criminosi capitati all’indomani del 25 novembre (vedi molestie alla giornalista sportiva Greta Beccaglia dopo la partita Empoli – Fiorentina), giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Eventi che mostrano, da parte degli aggressori, un senso di totale impunità e mancanza del senso di illecito: i corpi delle donne sono considerati a disposizione.

 

 

E fra le mura domestiche cosa accade? Diamo alcuni numeri per capire la dimensione del fenomeno. La pandemia ha fatto lievitare le chiamate al 1522. Nei primi sei mesi di quest’anno in Emilia-Romagna, le richieste di aiuto sono state 802, un numero inferiore alle 978 del primo semestre del 2020 (-18%), ma che registra una crescita del 42% rispetto alle 564 chiamate dei primi sei mesi del 2019. In Italia i dati Istat mostrano che il 31,5% delle donne ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Le forme più gravi di violenza sono esercitate da partner o ex partner, parenti o amici. Gli stupri sono stati commessi nel 62,7% dei casi da compagni (fonte Ministero della Salute).

Il numero delle donne uccise è aumentato dell’8% in un solo anno: fino al 21 novembre scorso, le vittime sono già 109, di cui 63 morte per mano del partner o di un ex partner (fonte dipartimento della pubblica sicurezza – direzione centrale della Polizia criminale).

Le norme per contrastare il fenomeno in realtà ci sono in Italia e sono considerate all’avanguardia, ma qualcosa evidentemente s’inceppa.

Recentemente poi si è aggiunto un disegno di legge al quale hanno lavorato in particolare le ministre del Governo Draghi che mette in campo una serie di ulteriori misure: dall’estensione dei casi di procedibilità d’ufficio, senza cioè bisogno della denuncia, al fermo immediato di stalker e violenti in caso di imminente pericolo per la donna e all’aumento delle pene per chi è già stato ammonito per violenza domestica. Il ddl prevede poi il sostegno economico e la tutela da parte delle forze di polizia per chi denuncia ed è in una situazione di rischio concreto. E gli orfani non dovranno aspettare l’esito del processo per l’indennizzo.

“È chiaro che le pene certe sono sempre un valido deterrente, quindi ben vengano norme più stringenti, come la possibilità di procedere d’ufficio, contro chi commette violenze di qualsiasi genere sulle donne, così come prevede il ddl che passerà all’esame delle camere dopo l’approvazione definitiva in consiglio dei Ministri – spiega la senatrice Maria Gabriella Saponara -. Per quanto riguarda le violenze domestiche, le più difficili da intercettare e arginare, molte donne non denunciano perché si trovano in una condizione economica difficile o per vergogna, è quindi fondamentale una tutela e un sostegno economico alle donne che denunciano. È però altrettanto vero che chi compie atti violenti non sta bene per questo l’uomo che maltratta oltre a essere allontanato dalla vittima deve essere “curato” con idonei percorsi, per evitare che reiteri il reato. Alla base di tutto c’è la necessità di una massiccia azione di prevenzione, a partire dalle famiglie, luogo primario in cui l’individuo matura e consolida atteggiamenti e convinzioni che possono portarlo a un concetto distorto di amore e di conseguenza ad atti che nulla hanno a che fare con l’amore”.

Giudica molto positivo il provvedimento anche la deputata Laura Cavandoli che spiega: “Il ddl approvato in CDM contiene misure importanti per la prevenzione e il contrasto alla violenza contro le donne: inasprimento delle pene, ammonimento del questore, fermo in caso di molestie o stalking, braccialetto elettronico d’ufficio, obbligo di informare la vittima in caso di scarcerazione, tutela della vittima. Misure che possono essere decisive per salvare vite, ma soprattutto lo Stato dà un segnale importante alle donne che vivono queste situazioni: “non siete sole” rafforzando l’invito a denunciare”.

Barbara Lori, assessora regionale alle Pari Opportunità che da poco ha presentato il Rapporto 2021 dell’Osservatorio regionale sulla violenza di genere ha commentato così: “Ritengo molto apprezzabile qualsiasi misura capace di rafforzare la capacità di concreta e reale azione per contrastare la violenza sulle donne. Credo che oggi più che mai sia viva la consapevolezza di dover agire anche in chiave preventiva per promuovere un profondo e radicale cambiamento culturale; anche per questo motivo auspico un maggior coinvolgimento della Regione utile a garantire e rafforzare il prezioso lavoro di rete e accoglienza di cui le donne vittime di violenza hanno bisogno”.

“Purtroppo, quanto fatto finora per affrontare il fenomeno non è stato un intervento sistematico e profondo – ci spiega Nicoletta Paci, assessora alle Pari Opportunità e Sanità del Comune di Parma. Il problema è strutturale e come tale va affrontato, intervenendo su tutte le componenti, sociali, educative, sanitarie, istituzionali e legali. La nuova proposta di legge va certo in quella direzione, ma secondo me il percorso di recupero per gli autori di violenza dovrebbe essere reso obbligatorio e senza sconti di pena, solo così si potrebbe davvero intervenire significativamente contro chi si è già macchiato di azioni violente, salvaguardando anche l’incolumità della vittima senza peraltro limitarne la libertà con una scorta. Credo debbano essere gli uomini violenti a dover essere limitati nei movimenti.

È poi indispensabile agire sulla prevenzione istituendo come materia curricolare “L’educazione all’affettività e al rispetto degli altri” che potrebbe davvero aiutare i nostri ragazzi a crescere in una cultura del rispetto e della non violenza, stemperando anche i tanti episodi di bullismo e delle deprecabili “baby gang” tanto presenti nelle cronache di questi giorni”.

Insomma di violenza sulle donne se ne parla sempre di più e si cerca di agire a vari livelli, ma i casi continuano ad essere sempre più frequenti, come ci dimostrano i numeri. Da più parti e da moltissimi anni per spiegare il fenomeno della violenza di genere si parla di questione culturale.

Di questo abbiamo parlato con Marco Deriu, sociologo, docente di sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Parma, membro di “Maschi che s’immischiano” e a livello nazionale di “Maschile Plurale”, associazioni che hanno l’obiettivo di sensibilizzare su questo tema anche il mondo maschile. “C’è una sora di diniego, sottovalutazione e tolleranza verso i comportamenti violenti noi vogliamo aumentare la sensibilità sul tema. È importante capire che il cambiamento arriva se c’è anche una riflessione da parte maschile su che tipo di uomini vogliamo essere, che tipo di maschilità vogliamo esprimere, in che tipo di relazioni crediamo di trovare libertà e felicità. Insomma non vogliamo essere indifferenti, fare finta di niente ed essere passivi”.

La questione culturale spiega dunque il fenomeno?

La questione culturale e anche quella sociale: le due cose sono commesse. Veniamo da una tradizione in cui i modelli di maschilità e femminilità erano definiti culturalmente, i ruoli e i compiti erano specifici così come le aspettative sociali erano definite. Per semplificare si parla di cultura patriarcale, in cui era codificato il ruolo delle figure maschili, in particolare dentro alle famiglie, ma anche socialmente, nel senso che il ruolo non era un auto attribuzione, ma una investitura coerente con la visione giuridica, politica, religiosa, sociale. Dal codice di famiglia, alla divisione del lavoro, alla responsabilità pubblica ed economica, ai ruoli di potere c’era una prevalenza della figura maschile su quella femminile. Naturalmente le cose oggi sono cambiate a partire dalle leggi sulla famiglia, ma tracce di quel modello sono ancora presenti e quindi vediamo forme di asimmetria, di discriminazione e diseguaglianza.

Cosa intende per aspetto sociale?

Al di la dei modelli culturali ci sono modalità di costruzione delle mentalità, dei comportamenti, delle aspettative che nascono dentro le relazioni sociali allargate, non solo nei contesti famigliari, ma anche nei luoghi educativi, nello sport, nei luoghi di intrattenimento, nell’industria culturale, negli spazi ricreativi. Sono luoghi in cui uomini e donne partecipano in modi diversi. Ci sono dimensioni di costruzione di identità e modelli di personalità che dipendono dalle relazioni sociali, non solo da modelli culturali in senso astratto.

Per questioni di ricerca ha intervistato diversi uomini violenti sia dentro che fuori le carceri quali conclusioni ha tratto?

Non è che non è passato il modello di parità diritti, il problema è proprio come le persone stanno dentro le relazioni. Oggi ragazze e ragazzi si percepiscono in modo diverso rispetto a 20-30 anni fa, però noto una certa fatica che nasce dalla difficoltà a mettersi in gioco in modalità nuove, inedite e paritarie nelle relazioni. E questo non si cambia solo a livello culturale. Manca la capacità di stare dentro i conflitti, di accettare le differenze, accettare situazioni che non si controllano. Questa è una parte molto fragile.

Come e su quali aspetti si dovrebbe intervenire?

Fino ad ora abbiamo lavorato molto sul lato della sicurezza e anche su quello culturale in senso lato, sui diritti, sul contrasto agli stereotipi, però ci sono degli ambiti non bene presidiati come quello dell’alfabetizzazione emotiva. Vedo in molti uomini con problematiche di aggressività e violenza una grande difficoltà a leggere, riconoscere e dialogare con le proprie emozioni e di conseguenza c’è scarsa conoscenza di sé, proiezione sull’altro, esternalizzazione dei propri vissuti. Manca la capacità di lettura del proprio mondo interiore e l’abitudine a esprimere e dare significato alle proprie emozioni. Sono persone che parlano poco di sé, che non condividono i problemi, che non hanno spazi di confronto e che non sono in grado di costruire rapporti intimi e quindi, per certi aspetti, sono molto sole.

Il corpo della donna è ancora considerato a disposizione?

Il fatto che sia percepito così è un’eredità del codice di famiglia che non riconosceva lo stupro all’interno del matrimonio, il marito aveva diritto di libero accesso al corpo femminile. Come uomo mi chiedo come è che concepiamo il nostro corpo. È un luogo di tenerezza, di piacere reciproco o una arma che usiamo come leva di imposizione e di sopraffazione? E che tipo di piacere o godimento c’è in questa cosa? Dobbiamo lavorare su due fronti, da una parte modificare l’immagine della donna, dall’altro ridiscutere il vissuto della nostra corporeità, del nostro modo di sentirci.

Tatiana Cogo

 

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