Bignamino Baustelliano (in preparazione al concerto del 25 aprile a Parma)

di UG

L’opera prima dei Baustelle esce precisa precisa nel 2000, pubblicata da “Baracca&Burattini”, costola del “mitico” Consorzio Produttori Indipendenti (fusione de “I Dischi del Mulo” e “Sonica”).

Il lavoro fin da subito incarna l’urgenza innovatrice di quel preciso momento, da parte di generazioni trasversali di ascoltatori: saturi del cantautorato classico, dell’ital-pop, dell’ital-rock, queste rinnovate leve auricolari vogliono, creano e forzano una scena che verrà individuata come “indie”, riversandovi forti aspettative e la loro idea di evoluzione del panorama musicale. Evoluzione che arriverà agli odierni Brunori sas, Calcutta, Luci della Centrale Elettrica, Cosmo; ormai moderni Bersani, moderni De Gregori, moderni Battisti-Mogol… che piacciano oppure no, di quel movimento si stanno raccogliendo frutti importanti.

Solo incidentalmente il primo lavoro dei Baustelle suona come indie; un po’ per i mezzi produttivi (non erano ancora sotto l’egida Warner) e un po’ per i nomi che si sono alternati alle consolle: “Sussidiario Illustrato della Giovinezza” altro non è che espressione di un nuovo romanticismo italiano, con suoni ibridi tra pop e elettronica di manifattura quasi artigianale. Potrebbe essere tranquillamente cantato da Luigi Tenco o da Sergio Endrigo se vi fossero archi al posto dei synth e al netto di qualche ribaltamento di costume; da cui proviene la grondante sessualità di ispirazione adolescenziale, nostalgica, di cui è finemente intriso, e che ritroviamo maturata in botte e intensa nell’ultimo “L’Amore e Violenza, vol.2” (Warner, 2018).

Dal “Sussidiario” e già dal successivo “La Moda del Lento”, la carriera dei senesi è stata un crescendo di riscontri e crescita artistica, sicuramente non prevista dai detrattori, tutt’oggi ipoteticamente bloccati a quel ritaglio temporale, quello bohémien e dandy iniziale, fatto di adolescenza eterna: ritratto che la band non ha mai accantonato, ma semplicemente evoluto in una prospettiva d’autore personale. Insomma, dai numerosi singoli inizi 2000, passando per il monumentale “Fantasma” del 2013 e compreso l’ultimo ritorno electro-pop, i Baustelle paiono aver sviluppato in ogni direzione il loro patrimonio biologico, ramificando la chioma verso le nuvole, senza mai rinnegarsi, senza mai rinchiudersi e perdere la loro narrativa caratteristica, fatta ora di relazioni malate col mondo (“Betty”, “Charlie fa Surf”, “La Guerra è finita”), ora dall’animazione nel villaggio mistico della provincia italiana, rifugio redentore e soffocatore (“I Provinciali”, “Le Rane”).

Questo percorso e i suoi contradditori presupposti saranno la fonte degli onnipresenti dualismi di cui la loro discografia è costellata. Dualismi che come tutte le tensioni, attraggono.
Affinità e Divergenze: prima rispetto a sè stessi, in una forma di scissione creativa, e poi nella percezione esterna e nel rispondere alla aspettative del loro pubblico, sempre più vasto, sempre più maturo, sempre più spesso confuso.

Volendo identificare questi nuclei portanti, bolle sonore e letterarie di contraddizione-caratterizzazione, cito i miei personali “6 pezzi facili”, che ad ogni ascolto vanno a dar vigore al pathos geneticamente insito nella loro opera:

1) Tra terra e cielo andata e ritorno. Il viaggio andata e ritorno dal terreno, alla riflessione sull’esistenza, fino al rapporto personale e universale col divino. Però!
Da quel “ci prenderemo come i cani, la gente fuori non lo capirebbe mai… ma sempre meglio di morire…” (“Io e Te nell’Appartamento”) di inizio secolo, fino a “nei fiori di campo e nei passeri se nevica, li vedo campare senza niente da mangiare, osservo Dio, lo lascio fare”, in “Fantasma” del 2013, il percorso dei nostri è sempre verticale, alternando ascesi e discese in una multiforme Scala di Giacobbe, i cui pioli sono costruiti sulla evocazione del passato e dei sentimenti ivi trapiantati, per arrivare alle proiezioni del futuro, perché “il ricordo si sa, trasfigura la realtà, la verità se ne sta sulle stelle più lontane” (“L’Aeroplano”). Passaggio sempre mediato dagli scatti di vita nelle città di “Un Romantico a Milano” o di amara nostalgia dentro ai bar dei paesini nostrani per cui “vivi ancora in provincia, ci pensi ogni tanto alle rane?”. Le campagne centro-italiane d’altra parte hanno visto nei secoli un fiorire di mistici non indifferente, intorno e non solo al Carisma di S.Francesco: “saremo santi disprezzando la realtà, e questo mucchio di coglioni sparirà, e ne bellezza o copertina servirà, che siamo niente, siamo solo cecità” (“I Mistici dell’Occidente”, 2010).

2) Tra posa e introspezione. I contenuti (tosti) – nonostante gli intenti dichiarati che “ne bellezza o copertina servirà”, che non disdegnano incursioni di forte critica sociale (“Spaghetti Western”, “La Canzone della Rivoluzione”…) – sono sempre ben nascosti dalle dita di cerone di un’estetica da “posers” consumati e ammiccanti ora la Francia anni 60 (“La Canzone di Alain Delon”: “rubare negli autogrill ti rende Alain Delon”) , ora la Tv italiana dei nostri anni più glamour (“i wanna be Amanda Lear, il tempo di un LP, il lato A, il lato B, che niente dura per sempre…”) o la britannica attitudine alla “Pulp”, giocando con look ricercati, coi cappelli a larghe falde di Rachele e con provocazioni dandy alla Wilde, insinuate nei testi: ”l’erba, ti fa male se la fumi senza stile”, come chiude “Un Romantico a Milano”. Atteggiamento voluto, a fidelizzare in primis le larghe schiere dei primi innamorati esteti da “Sussidario” o dalla stilosità del “La Moda del Lento”: altri sono rimasti invece scottati da quelle impressioni iniziali, irrigidendosi in un tombale giudizio di gruppo vuoto e modaiolo. Sbagliando forse: “Dio guardava il figlio suo e in onda lo mandò, a Wojtyla, alla P2, a tutti lo indicò… a Cossiga e alla DC, a BR e Platini, Repubblica e alla Rai, la Morte ricordò… a chi mai dentro di sé, il vuoto misurò”. (“Alfredo”, da “Amen” Premio Tenco 2008).

3) Tra citazionismo e personalità. “Io non ho più voglia di ascoltare questa musica leggera”, profughi siriani, canottiere rosse costrette a sventolare, e da un angolo ti aspetti l’uscita di un Battiato con l’iconico megafono ad annunciare la bandiera bianca – da lì fino ai “gravi stati di allucinazione” di “Eurofestival” coi suoi “epicurei, giovani rapper, etero e gay, occultisti e dj”. Dall’ultimo “L’Amore e la Violenza” (2017), “Il Vangelo di Giovanni” è soltanto uno degli innumerevoli episodi di una rielaborazione consapevole e citazionistica, musicale e letteraria. Citazionismo che conduce ad una chiara ed al contempo indefinibile sensazione di “deja vu”, al limite invalicato e subliminale di un quasi-plagio mirato alla costruzione di una forte identità sonora. Paradossale. Spietato e concreto, accettabile e moderno concept. I Baustelle spremono, dosano e omaggiano i loro miti musicali; ne fanno elemento vitale di personalità decisa, riconoscibile. Da Battiato agli chansonniers, dagli interpreti della Canzone Italiana anni 60 al Branduardi cercato ne “I Mistici dell’Occidente”, fino all’electro-pop a chitarre pesanti dei sobborghi di “Veronica n.2”, che gioca senza pudori col brit-pop di “Babies” dei Pulp, oppure sfruttando i nostri classici poeti: “Piove su immondizia e tamerici, sui suoi 5000 amici”. E ancora la sequenza synth di “L”, gli “sciabadabada” sparsi come il sale… Chi grida allo scandalo, chi gioca a cercare le fonti, chi semplicemente, come il sottoscritto, vede vivere decenni di Cultura sonora e testuale, in una manciata di canzoni, accettando che siamo gran parte del nostro passato, in ogni nostra espressione.

4) Tra identificazione e proiezione. La drammaticità di brani presentati come leggeri, dai forti ritornelli, come “Charlie fa Surf” e “La Guerra è finita” – se non la decadenza di “Betty” col suo “bel profilo (facebook)” – vedono i testi immergersi perfettamente e persino identificarsi in psicologie tese, immature, intrinsecamente schizofreniche, in un patologico e mascherato conflitto col mondo. E’ lo strumento della memoria a legare i tempi, un calarsi nell’adolescenza e nelle adolescenze nascoste nell’età adulta, il quale, come in un abile gioco di cambi di scena registici, muta in “proiezione” adulta, matura; mostrando perciò volontà protettiva, subitanea compassione e tenerezza di giudizio (“era mia amica, era una stronza, aveva 16 anni appena”), accusa verso l’ambito sociale che non concede personalità, tranne che a piccole élites (“il cantante, l’attore, eccetera eccetera”), e verso i deleteri antidoti a cui costringe: “è l’antidoto che ho, al futuro anonimo, è la scritta Calvin Klein, è la firma D&G…hai ragione Monica, la sconfitta è storica, ma non posso dirtelo…” in “A Vita Bassa” (da “La Malavita” del 2005).

5) Tra autoralità e commercialità. Poche band sono così sfacciate nel proporre pop ammiccante – mai superficiale beninteso – catchy, impomatato. Poche band riescono a sfornare brani d’autore cosi intensi, intercettando gusti trasversalmente collocati, come fossero determinati da panel di marketing sofisticatissimi.
Se ci scandalizziamo per la “rima micidiale” “i wanna be Amanda Lear”, cosi come ci scandalizzammo per il riff di “Un Romantico a Milano”, non possiamo evitare che il cuore si spezzi quando Rachele ci intona “L’Aeroplano” oppure con la battiatiana “Radioattività”, la corale “I Provinciali” o stupirci di fronte ai gioielli nascosti come “La Canzone del Parco”, “L’Indaco”, “Follonica”, “Lei Malgrado Te”.
Come mi fa notare l’amico poeta Luca Ariano l’armamentario letterario è inarrestabile, rischiando incastri metricamente arditi, citazionismo alla Pound e atmosfere surreali alla Borges: ammicca addirittura ad Umberto Fiori (Stormy Six) e pesca dalla tradizione mistica italiana medievale. Notevole l’elegante leggerezza nel miscelare i frammenti di cultura pop che indistintamente piovono addosso da internet e tv.
Notevole anche la nonchalance con la quale stratificano i lori dischi con brani riempitivi, alcuni interessanti, certo, ma che alla fine compiono lo “sporco lavoro” di dare densità alla track list, di allungare l’elenco.
Degni di nota infine gli strumentali in cui espongono la grafia del momento, come bussole orientative, come un cinema all’aperto nelle afose serate estive di provincia, bandiere di nostalgia campestre, come gli alberi alle finestre (“La Musica Elettronica”).

6) Tra Bianconi e la band. Chiaramente l’immaginario, il bestiario bianconiano, la sua forza narrativa e immaginifica è il cuore pulsante del mondo baustelliano. Niente da dire. La domanda però è se questo lo renda il leader di due fedeli comprimari o se invece i tre di cui stiamo parlando da mezz’ora non si completino, rendendosi indispensabili l’un l’altro alla creazione di questa formazione e del suo successo.
Io una risposta me la sono data, è la mia. Sarà ormai l’imprinting, ma senza la finezza interpretativa della Bastreghi non potrei immaginare il loro repertorio; ma dirò di più. La cavalcata finale de “Le Rane”, gli arpeggi di “A Vita Bassa”, le distorsioni e gli ariosi spazi delle canzoni d’amore 2017-2018, il cambio di direzione, nel 2008, dopo il loro miglior disco, la riuscita sintesi di una cultura ipertrofica; tutto un complesso di cose, come diceva Paolo Conte, che mi fanno pensare di avere a che fare con un gruppo vero, sopravvissuto a cambi di formazione e produttori cometa, fatto di prime donne e gregari di lusso che tirano la volata e che dietro le quinte lavorano per dare sempre linfa nuova al quel realismo magico, a quel surrealismo concreto, che sono i Baustelle.

Max Scaccaglia

DISCOGRAFIA E VOTI

“Sussidiario Illustrato della Giovinezza” (2000 – Baracca&Burattini): 7,5/10;
“La moda del Lento” (2003 – BMG): 7/10;
“La Malavita” (2005 – Warner): 9/10;
“Amen” (2008 – Warner): 8,5/10;
“I Mistici dell’Occidente” (2010 – Warner): 7,5/10;
“Fantasma” (2013 – Warner): 9/10;
“L’Amore e la Violenza” (2017 – Warner): 7,5/10;
“L’Amore e la Violenza. Vol.2” (2018 – Warner): 7,5/10

 

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