
La Welthauptstadt Germania (lett. “Capitale mondiale Germania“) era il grandioso progetto affidato al Primo Architetto della Germania nazista, Albert Speer, per riprogettare Berlino dopo la vittoria nella Seconda guerra mondiale.
Speer immaginava una capitale universale del Riech che fosse funzionale e il riflesso dell’ideologia nazista, riorganizzata attorno a un viale centrale lungo cinque chilometri, chiuso al traffico, che doveva essere utilizzato per le parate militari o paramilitari, sotto il quale scorreva un’autostrada. All’estremità del viale Speer pianificò la costruzione di un enorme edificio a cupola, la Volkshalle (“Sala del popolo”), che sarebbe dovuta diventare il più grande spazio chiuso al mondo, dedicato al Volk ariano. Un luogo inspirato al tempio di Apollo dall’aria sacrale destinato al culto di Hitler e dei suoi successori.

La medesima impostazione ideologica (ovviamente opposta nei principi) ispirò il classicismo sovietico che ebbe il suo culmine nel meraviglioso gotico staliniano degli anni 1933-55. Le città venivano costruite (o rinnovate) secondo una pianificazione territoriale concepita non più per singoli interventi ma per distretti, per funzioni collettive. Si procedeva per comparti urbanistici dalla densità pianificata, suddivisi perfino in base al rango di partito e al contributo alla realizzazione del socialismo apportato dagli inquilini. Il complesso dei “grattacieli di Stalin”, noto anche come le “Sette Sorelle”, celebrava la gloria socialista e trasudava negazione di ogni individualismo da ogni pietra. Per arrivare al mastodontico progetto del Palazzo dei Soviet, costruito catarticamente sulle macerie della più grande chiesa ortodossa di Mosca, la Cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca, che Stalin fece saltare per aria con la dinamite. La struttura, rimasta incompiuta a causa del sopraggiungere della guerra, di cui furono realizzate solo le fondamenta, avrebbe dovuto diventare l’edificio più alto del mondo elevandosi in cielo per quattrocento metri con un’avveniristica forma a gradini culminante con una statua di Lenin di cento metri.

Venendo ai nostri tempi e ai nostri luoghi, ritrovo nella riprogettazione di “Parma città d’oro”, curata dall’architetto e professore universitario Dario Costi, in mostra alla Fondazione Cariparma, una completezza e una profondità senza precedenti per la città dai tempi di Maria Luigia. Il ripensamento della città attuato da Costi non è un abbellimento fine a se stesso, sterile o di facciata, magari la copiatura di qualcosa già visto in giro per il mondo. E’ uno studio di intriso di identità che parte dalla storia della città e la rende protagonista. Riporta in vita i suoi luoghi e le sue costruzioni, declinandoli attraverso le parole d’ordine della modernità quali sostenibilità, socialità, sicurezza.
Il recupero delle mura storiche della città non è quindi solo il riportare alla luce un’opera monumentale del passato a fini turistici, ma è un intervento rivoluzionario che crea tutt’intorno al centro storico un anello verde percorribile a piedi o in bicicletta, che connette ambiente, mobilità, qualità della vita.
L’architetto di Corte Ennemond Petitot aveva provato a fare di Parma una Capitale come Parigi con un grande viale per il pubblico passeggio e uno dei primi caffè d’Europa dove far incontrare la nobiltà e l’alta borghesia. Costi libera il Petitot prigioniero delle automobili per consegnarlo alle persone, risolvendo lo snodo viabilistico alle sue spalle e collegandolo al parco perimetrale delle mura farnesiane.
Il complesso monumentale della Pilotta è rilanciato come un grande museo internazionale attraverso l’utilizzo delle cantine e dei percorsi di servizio e l’abbassamento del prato esistente a riscoprire le fondamento del Palazzo Ducale.
Non ci sono le macchine, ci sono le biciclette. Non ci sono grattacieli altissimi o grandi cupole. Ci sono giardini pubblici e spazi dove tornare a incontrarsi. Ci sono le persone. Al superuomo della razza ariana, al popolo sovietico liberato dalla proprietà privata, Dario Costi sostituisce il cittadino di Parma.
E’ il cittadino di Parma il destinatario da coinvolgere attraverso un processo di ascolto che arriva al massimo della sua dimostrazione ideologica nella “Stanza della condivisione”, l’ultimo luogo della mostra dove chiunque può scegliere il destino del patrimonio da riorganizzare tra le destinazioni proposte dagli esperti coinvolti e presenti nei video (tra gli altri Davide Bollati, Andrea Chiesi, Simone Verde, Guido Conti, Luca Farinotti, Giancarlo Gonizzi e Irene Rizzoli).
E’ l’utopia della realtà.
E’ l’impossibile che, se lo guardi bene, diventa improbabile. E se ci provi per davvero diventa anche fattibile.
Andrea Marsiletti