
Il 26 Novembre 2017 sul web viene lanciato lo slogan shock “L’anoressia non è una malattia ma una scelta”.
In Italia oggi si contano 300.000 siti PRO-ANA, cioè a favore dell’anoressia come stile di vita.
Gli schermi dei pc e smartphone possono essere per i ragazzi una finestra sul mondo, ma anche una cella che li imprigiona ogni volta che restano chiusi in camera da soli. Un giovane che cerca consigli trova nel suo smartphone tutti i suggerimenti necessari per dimagrire, non importa a quale costo. Il tutto all’insaputa dei genitori. Ma anche per incontrare qualcuno con lo stesso problema con cui potersi confrontare e magari in cui rispecchiarsi.
Perché aprire un blog legato alla malattia?
Semplice, per non restare soli, per sentirsi capiti. Nel 2017 ne è stato chiuso che insegnava a diventare anoressici, chat PRO-ANA: “Non importa la salute, conta solo perdere peso”, ragazzi poco più che maggiorenni inneggiano l’anoressia come stile di vita. Sembra non esserci l’interesse verso le conseguenze di tale comportamento, né verso le cause che l’hanno generato. In realtà l’anoressia è principalmente un disagio emotivo espresso attraverso il controllo e la manipolazione del cibo nel tentativo di fuggire dal vero motivo che ha innescato il problema.
Etimologicamente anoressia significa “senza fame”, in realtà i soggetti affetti da tale disturbo hanno imparato a controllare il proprio appetito. Spesso, quando un genitore si rende conto della situazione, esso è già presente da tempo.
Quindi, come possiamo noi genitori aiutare i figli? Negando loro la possibilità di usare i tablet, i pc o i cellulari? Sarebbe controproducente.
Prima di tutto occorre conoscere la malattia, prendere consapevolezza della sua esistenza e non lasciarsi affliggere da sensi di colpa. Anche noi genitori siamo vittime del disturbo alimentare e delle sue conseguenze. Uno degli aspetti più importanti che emerge quando in famiglia uno dei figli comincia ad avere questi tipi di problemi, è la ricerca spasmodica del perché. Una domanda ricorrente tra i familiari è: “E’ colpa nostra?”.
Colpevolizzarsi non serve a nulla. Il senso di colpa impedisce di vedere le vie d’uscita contribuendo al mantenimento della problematica.
Un disturbo alimentare è una malattia, non una questione di forza o volontà, né un capriccio oppure uno stile di vita, e richiede l’intervento di persone competenti in grado di aiutare l’intero nucleo familiare per affrontarla. Il cibo può diventare una sostanza da cui dipendere psicologicamente, e ciò accade quando è vissuto o percepito come valvola di sfogo, come rifugio o come sostanza analgesica contro le sofferenze del vivere quotidiano. Le persone dipendenti da cibo continuano a mangiare, nonostante le conseguenze negative, per cercare di porre un freno all’angoscia interiore. Chi si butta sul cibo, in genere, lo fa perché nell’immediato ha un’aspettativa positiva: “mangiare è d’aiuto”.
Mangiare e bere costituiscono la risposta a pulsioni fisiologiche per dare al corpo energia e nutrimento, ma rappresentano anche un’esperienza psicologica che corrisponde all’appagamento di un desiderio. Il cibo può compensare un’affettività carente, può placare un’aggressività non esternata, attenuare momentaneamente stati d’ansia o sintomi depressivi, fallimenti o eventi traumatici (come lutti, separazioni). Spesso anche rabbia, tensione, noia e altre emozioni.
Suggerimenti. Un consiglio per i genitori è quello di non sottovalutare mai l’importanza che riveste il loro ruolo in una situazione simile. E’ fondamentale alimentare il clima familiare di supporto, disponibilità e vicinanza senza farsi abbattere dalle difficoltà né sopraffare dalle paure. Occorre rivolgersi a professionisti che siano in grado di gestire e affrontare la problematica nella sua globalità ed affidarsi alle loro indicazioni. Il consiglio per i ragazzi è quello di ascoltare le proprie emozioni, esternando i sentimenti negativi affidandosi all’aiuto dei familiari.
Cecilia Ferrari, psicologa/psicoterapeuta Centro Medico Spallanzani