Mes, questo sconosciuto, ma cosa c’è dietro le scelte della premier? INTERVISTA ad Alfredo Alessandrini

SMA MODENA
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Tema caldo della politica delle ultime settimane, il Mes è stato ed è fra le prime notizie riportate da telegiornali e giornali, ma l’opinione pubblica, sa di cosa si tratta? E soprattutto quali sono le conseguenze in caso di una mancata ratifica? Per capire meglio cosa è il Mes e perché l’Italia è l’unico paese della Ue a non averlo ratificato, abbiamo intervistato Alfredo Alessandrini, docente di materie economiche.

Cos’è il Mes e a cosa serve?

Il Mes, Meccanismo europeo di stabilità, è diventato operativo nell’ottobre del 2012 da parte di diciannove Paesi membri dell’Eurozona. Questo strumento, denominato comunemente “fondo salva stati”, è nato in un momento difficile per l’Unione Europea, con una recessione in atto e una situazione della finanza globale ancora alle prese con le drammatiche difficoltà della crisi del 2008 innescata dal fallimento della Lehman Brothers. Infatti alla crisi del 2008 è poi succeduta la crisi del debito sovrano di alcuni Stati Europei, innescando così una seconda crisi. Questo fondo aveva lo scopo di intervenire finanziariamente per sostenere paesi in difficoltà economica a rischio di default e impossibilitati a ripagare il debito verso i risparmiatori e quindi a emettere nuovi titoli del debito pubblico.

Gli Stati membri aderenti al fondo (quelli dell’Eurozona) hanno versato un capitale iniziale; il fondo può poi reperire risorse emettendo sul mercato delle obbligazioni per raccogliere ciò che è necessario per garantire la stabilità dei Paesi in difficoltà.

Dell’aiuto finanziario del Mes hanno beneficiato Irlanda, Spagna, Portogallo, Cipro e Grecia. I finanziamenti concessi sono stati sottoposti a forme di garanzia, denominate condizionalità, che consistevano in un piano di aggiustamento macroeconomico e di finanza pubblica, per superare le situazioni strutturali che avevano generato i problemi economico-finanziari. Nei casi più gravi gli aggiustamenti macroeconomici erano accompagnati dalla presenza della cosiddetta “troika” (Fondo Monetario Internazionale, BCE, Commissione Europea). Sono state le pesanti misure macroeconomiche applicate alla Grecia, con la presenza ingombrante della troika come controllore, a generare quel rigetto per la prima versione del Mes che ha portato alla riforma di cui stiamo parlando in questi giorni.

Il Mes riformato ha ridimensionato i rischi, ammesso che ce ne fossero, per gli stati indebitati e l’Italia è l’unico paese Ue a non averlo ancora ratificato. Questo cosa comporta?

Proprio per superare le importanti criticità della forma originaria del Mes nell’applicazione greca, che ha visto misure economiche molto pesanti con ricadute sociali gravi ed una presenza costante della troika come controllore, è partito un progetto di riforma che ha trovato un accordo nel gennaio 2021, quindi non un decennio fa, ma possiamo dire poco più di un anno fa.

Il Mes riformato, oltre a non volere l’utilizzo della troika, prevede una forte semplificazione tecnica per le linee di credito dei paesi in difficoltà. È anche modificato per le parti relative alle discusse condizionalità che ne fanno uno strumento profondamente diverso da quello conosciuto.

Il punto, a mio avviso, più importante è il cosiddetto back stop, in pratica un fondo nel Mes per intervenire nelle crisi bancarie in modo da evitare l’intervento di salvataggio delle banche da parte degli Stati (come è purtroppo accaduto nelle crisi 2008-2012) e quindi le ricadute negative sui contribuenti. Questa linea di credito diventa operativa in presenza delle crisi bancarie dopo che sono stati recuperati i fondi dagli azionisti, da risparmiatori con forme particolari di obbligazioni (bail in) e dopo che sono state recuperate risorse dal meccanismo di risoluzione unico delle crisi bancarie che è un fondo di cui si è dotata l’Unione Europea per affrontare le crisi bancarie che purtroppo abbiamo visto anche recentemente vicino al nostro Paese.

Sull’utilità dello strumento del back stop nel Mes riporto il parere positivo, da me sentito di persona a una lezione a Parma, di Francesco Saraceno docente a Sciences Po di Parigi, uno dei massimi esperti internazionali di economia europea, da sempre critico del Mes prima della riforma attuale. E, udite udite, c’è anche una relazione tecnica di pochi giorni fa del ministero dell’Economia e delle Finanze, guidato da Giancarlo Giorgetti, che esprime un parere favorevole sull’utilità del Mes. Quindi, nella versione attuale, i miglioramenti sono consistenti e, a mio avviso, è indispensabile approvarlo. Rischi per il paese non ce ne sono, collegarlo ad altri dossier è un problema; ad esempio l’Unione Bancaria è già operativa per due dei tre pilastri, che sono i meccanismi di supervisione delle banche e di risoluzione in caso di crisi delle stesse, che intervengono prima del back stop, di fatto un prestatore di ultima istanza.
Poi, una volta sottoscritto, il governo può decidere di non utilizzarlo; ma dato che la nostra firma tiene bloccata la riforma, paesi che lo richiederebbero sono costretti a non utilizzarlo.

La premier Meloni ha spiegato chiaramente che “L’interesse dell’Italia è affrontare il negoziato sulla governance Ue”, che partita sta giocando secondo lei?

Collegare la sottoscrizione del Mes a una generica riforma della governance, come dice lei nella sua domanda, è un’affermazione generica da comprendere meglio. Abbiamo visto sopra che un pezzo importante dell’Unione Bancaria è realizzato per le parti che riguardano le crisi bancarie e quindi il nuovo Mes. La riforma del patto di stabilità e crescita segue una sua strada che non interferisce con quella del Mes. Che altro ci può essere nella governance che è meglio circoscrivere con il termine economica?
Forse c’è la partita del Pnrr, che ovviamente è lontanissima da questa decisione? È una scelta tattica? Mi fermo qui e forse sarebbe meglio chiederlo alla Presidente del Consiglio.

Rimanendo su temi finanziari, come giudica la scelta di Lagarde di “annunciare” un nuovo rialzo dei tassi d’interesse?

Sull’aumento dei tassi può essere vero che la misura è elevata ma è anche vero che è l’unica in campo per combattere l’inflazione. Una inflazione dovuta ad un aumento dei costi e non da aumento della domanda, che anzi sta drasticamente diminuendo. A mio avviso vedo una rischiosa sottovalutazione dei gravi rischi di ingiustizia sociale provocati dall’inflazione. Solo il professor Savona ha fatto un lucido richiamo a questo problema. Consiglierei ai miei amici economisti e ai politici di frequentare più spesso i negozi e i supermercati: di fronte ai prezzi dei prodotti avviene di frequente che le persone escano con esclamazioni spontanee del tipo: “ma questo prodotto in due settimane o addirittura in una settimana è cresciuto di prezzo”. Anche perché fare i conti dell’aumento di una vaschetta di salume è difficile in quanto, fino a poco tempo fa, erano di un etto ed ora sono di ottanta grammi. La conclusione è che per battere l’inflazione bisogna mangiare meno. Ma forse il Governo dovrebbe urgentemente occuparsi di politica dei redditi, dei nuovi poveri con stipendio fisso e dei pensionati.

Tatiana Cogo