“Time is a train, makes the future the past,
leaves you standing in the station
your face pressed up against the glass”
Con “Rattle & Hum”, doppio disco del 1989 che fotografa una lunga e trionfale tournée americana, dopo un decennio trionfale, che li portò da Dublino in vetta al mondo, gli U2 svuotarono i loro serbatoi per coronare il sogno da irlandesi in terra d’America.
Il sogno americano realizzato li aveva svuotati e la band si sentiva per la prima volta sull’orlo di un precipizio. Agli U2 non restava che ripartire radicalmente da un altro luogo.
Si ma quale, per la rock band ormai più famosa al mondo? Serviva un ventre creativo, la pancia della vecchia Europa… Non Parigi (che non sarà mai realmente rock), ma Berlino… Quella si… Ed è il momento giusto… Quello della riapertura post-muro, del brulicare di opportunità, dell’allure di una città in cui la storia si fa sentire pesantemente, della rottamazione del mito sovietico, della frammentazione dei modelli, dell’Europa liberata in qualche modo, che però di lì a poco conoscerà l’immane tragedia balcanica.
E la chiusura angosciata di “Love is blindness”, dolente e ipnotica ballata che chiude “Achtung Baby”, insieme al fantasma di Hitler (riproposto dal vivo nello Zoo TV Tour), sembrava prefigurare la presenza di inquietanti ritorni nel cuore della nuova Europa.
Sarebbero arrivati altri spettri, dopo quelli della guerra balcanica: oggi nel 2025, a più di 20 anni da “Achtung Baby”, li stiamo vedendo tutti in “bella” parata.
Ma torniamo al principio del discorso… e del disco. L’orizzonte di questo grande gruppo si sposta dunque, a bordo di un’improbabile Trabant (auto proletaria costruita nella DDR) dalle vaste pianure americane – un po’ olografiche ma sempre grande richiamo di libertà – così come dalla pacchiana Graceland di Re Elvis, all’asciutto e duro impatto di Berlino, metropoli europea, i cui spazi sono dati dalle ferite lasciate da un muro che non c’è più, e dove l’euforia si sposa con le contraddizioni evidenti dei modelli di sviluppo e della guerra fredda, da poco (1989 la demolizione del muro, 1991 l’uscita del cd) ufficialmente terminata.
Tecnicamente, si tratta del primo lavoro in cui gli U2 aprono alle nuove tecnologie musicali. Qui però, a differenza dei successivi lavori – “Zooropa”, interessante e sperimentale solo a tratti, e “Pop”, pacchiano e per buona parte sontuosamente vuoto – l’incontro si svolge su un campo essenzialmente rock, dove emerge un recupero di sonorità 70’s, creando un sound innovativo, ma con gusto riconoscibile, di grande fascino e impatto… “Misterious ways” ad esempio.
Ripartendo dalle sirene di Bowie-Heroes, citate proprio in apertura di “Zoo Station” e giocando con il fantasma di LouReed-Berlin… artista di riferimento, anche nel look, per il Bono di inizio anni ’90. Ripartendo dagli stessi Hansa Studios in cui fu registrata tra le altre cose la trilogia berlinese di Bowie.
L’attacco vede, oltre alle sirene berlinesi e al bel techno’n’roll di “Zoo Station”, che ti immerge nel mood, una successiva “Even better than the real thing” da urlo, che mostra come dall’89 al ’91 per gli U2 sia passato un mondo in mezzo. E come il gruppo sia, a dispetto delle difficoltà personali e collettive, in strepitosa forma.
La successiva “One” si dichiara ben presto classico dei classici: un impianto da song quasi soul, con una chitarra che da sola crea il giusto groove, attorno a cui cresce con grande gusto la ritmica… Figurarsi quando Bono può stagliare la sua voce su un muro di archi. Una celebrazione che sta nell’olimpo del rock, insieme al Lennon di “Imagine” e il Marvin Gaye di “What’s goin’ on”.
Ma, passati i quattro minuti e mezzo di questa canzone immensa, ci si immerge in tutt’altro sound, non meno incisivo: “Until the end of the world” ed ecco che, all’ascoltatore basito da tanta novità, comincia a delinearsi chiara la percezione del capolavoro… di qualcosa che esce ogni cinque anni almeno, e si prova l’eccitazione dell’iniziato… Il più strabiliante assolo di chitarra di “The Edge” da quando suona negli U2 è per me contenuto in questa song potente e incalzante, pensata per il film omonimo di Wenders e, ahimè, relegata nei titoli di coda.
Si dirà, tiriamo il fiato e, invece, parte qualcosa di assai distorto, in un territorio dove gli U2, band dal sound tirato ma comunque puliti, non si erano mai avventurati… Feedback e saturazioni all’eccesso, con dietro una linea melodica dolce come il miele. Bellissima anche “Who’s gonna ride your wild horses”, la più americana dell’album, ma più vicina a nuovi riferimenti grunge che ai già tributati classici del precedente “Rattle & Hum”.
E, continuando come Alice, di sorpresa in sorpresa, tutte positive sinora, ci si imbatte in un capolavoro di essenzialità e crudeltà musicale, confermata da un testo sublime: “So cruel” narra di un’impossibile attrazione-repulsione per una donna che avvince e rende impossibile il vivere. La voce di Bono, dopo le sferzate dei pezzi precedenti, vira verso il malaticcio, facendo intravedere una decadenza d’intenti… Il grande romanticismo degli U2 si corrompe nei salotti mitteleuropei… I componenti della band, ritratti nel booklet travestiti da nobildonne posticce, sono lì a dire che gli U2 stanno diventando una band-puttana… Cosa che si avvererà compiutamente nel giro di tre-quattro anni… Anche commercialmente parlando, con la colonna sonora di Batman Forever, ad esempio, con la ruffianamente bella “Hold me, thrill me, kiss me, kill me” e con Bono sempre più alle prese con il travestimento kitsch di MacPhisto. Il rigoroso bianco e nero tematico di “The Joshua Tree” ormai lontano anni luce.
La B-side, ragionando da vinile (cosa ormai fittizia, dato che in quegli anni si stavano affermando i cd) inizia con il singolo di traino “The fly” seducente metafora del rock che brucia e illumina il lato oscuro dei nostri pensieri, ambizioni, perversioni, rovesciando la prospettiva etica con cui gli U2 si erano marchiati a fuoco negli ‘80. C’è Hendrix e la psichedelia, l’elettronica di sfondo, il blues nella strofa e il soul nel ritornello… Un mix tremendo che colpisce allo stomaco: gli U2 hanno subito (o meglio hanno affrontato) una mutazione genetica, da cui non faranno ritorno… Almeno per un decennio, diciamo noi a posteriori.
E qui i fan si divisero… Avanzarono i puristi con il vinile nero di “The Joshua Tree” in mano ad inveire contro la svolta modernista… Gli stessi puristi che oggi affermano come i migliori U2 finiscono negli ’80 che li videro nascere. Io ho un altro punto di vista, e qui lo espongo fermamente. Gli U2 degli 80’s, tanto monolitici nelle loro granitiche certezze e geometrie musicali, da “War” fino a “Rattle & Hum”, passando per capolavori come “The unforgettable fire” e “The Joshua Tree”, diventano caleidoscopici con questo “Achtung Baby”, magmatico capolavoro, che si pone come spartiacque e prelude, questa si, ad una decomposizione progressiva lungo gli anni ’90, che arriva fino a “Pop”, esempio degenerato (nel senso non consono al genere che gli U2 suonano meglio), fino ad arrivare – grazie ad un probabile input dalla casa discografica e dai numerosissimi fan – a un ritorno alla purezza, resa edulcorata (in “All that you can’t leave behind”), per poi perdersi definitivamente lungo il nuovo millennio. Degli U2 millennials salvo poche cose, tra cui “The hands that built America”, splendido singolo per “Gangs of New York” di Scorsese, un pugno di singoli ben curati e un solo album: “No line on the horizon”.
Ma il “fuoco indimenticabile” era ormai alle spalle già negli anni 90. La band qui iniziava ad esserne forse consapevole… A differenza di critici ben più illustri del sottoscritto (che peraltro non è un critico musicale), sostengo che questo fuoco abbia trovato negli U2 la sua più clamorosa esplosione/implosione in “Achtung Baby”, rispetto ai precedenti. Forse perché qui in particolare l’identità cristiana e morale del gruppo si è incontrata/scontrata col corpo marcio del rock e del mondo (non dimentichiamo che nel ’91 ci fu la prima guerra in Iraq), creando una nuova miscela più aggiornata e graffiante per il sound degli U2.
“Ultraviolet – Light my way” ha la forza di un treno deragliato… “Acrobat” è la risultanza di un bad trip in termini musicali e non solo… “Tryin’ to throw your arms around the world” è una ripresa surreale, che sta dall’altro lato della medaglia… Quello di una band che suona rilassata, senza bisogno di dimostrare ad ogni costo, giocando con l’essenzialità e la poesia.
Non un episodio di “Achtung baby” rimane inutilmente a corredo: ogni canzone ha dentro una forza drammatica e vincente, anche e soprattutto nell’ascolto ripetuto. Come faccio io da tempo, convincendomi che ne vale ancora la pena.
“So don’t let the bastards grind you down”
Per ulteriori approfondimenti sul clima attorno ad “Achtung Baby” leggere questo bell’articolo… https://www.wired.it/article/u2-achtung-baby-anniversario-storia-brani-video/
Recensioni necessarie #9
Alberto Padovani



