
Sono passati quasi vent’anni dallo storico discorso di Papa Benedetto XVI presso l’Università di Ratisbona, una lectio magistralis che all’epoca suscitò forti polemiche per alcune frasi sull’Islam, in particolare per la citazione di un’affermazione attribuita all’imperatore bizantino Manuele II Paleologo.
In un dialogo con un persiano, l’imperatore avrebbe detto: «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere con la spada la fede che predicava.»
Si tratta probabilmente di una citazione infelice; a mio modestissimo parere, il Papa nella parte iniziale si sofferma eccessivamente sul concetto del Dio trascendente dell’Islam, che si differenzia dal Logos cristiano, per cui «agire contro la ragione è in contraddizione con la natura di Dio».
Tuttavia, tutto questo venne estrapolato dal contesto di dialogo e dallo spirito ecumenico che l’incontro intendeva promuovere.
Al di là delle polemiche con l’Islam, il vero tema del discorso era il rapporto tra fede e ragione. Le aspettative erano altissime: per trovare un Papa con la preparazione teologica e filosofica di Benedetto bisogna risalire a Papa Leone XIII, il Papa della Rerum Novarum, per intenderci.
In estrema — e mi scuso se irriguardosa — sintesi, le tesi di Ratzinger si possono riassumere così: il discorso di Ratisbona è un’esortazione a considerare la fede come un cammino fondato sulla ragione; un invito al dialogo interreligioso e alla collaborazione tra le diverse fedi per affrontare le sfide del mondo contemporaneo; e una critica all’uso della violenza per diffondere la fede.
La sintesi può sembrare irriguardosa, perché Ratzinger argomenta in modo raffinato, colto, con ragionamenti eleganti e coerenti.
Da questo punto di vista, le aspettative sono state ampiamente soddisfatte.
Forse, invece, a deludere sono stati gli esiti dell’appello che il Papa rivolse a scienziati e filosofi presenti in platea.
Benedetto esorta filosofi e scienziati ad aprirsi a una visione della ragione che non escluda il divino, criticando quella che egli definisce la «rottura della sintesi tra lo spirito greco e quello cristiano», introdotta nel tardo Medioevo da Duns Scoto e le successive ondate di deellenizzazione del cristianesimo verificatesi in epoca moderna, che egli individua in tre momenti principali:
La Riforma Luterana, accusata di aver tralasciato la metafisica per concentrarsi sull’etica, avviando così la frammentazione della Chiesa e una deriva relativistica.
L’Illuminismo, e in particolare Kant, che con il suo criticismo ha posto dei limiti alla ragione, escludendo la metafisica in quanto non dimostrabile razionalmente.
La scienza contemporanea, che rifiuta di interrogarsi sul senso ultimo delle cose, concentrandosi esclusivamente sul loro funzionamento.
Questa separazione tra ragione e fede, secondo Benedetto, ha spianato la strada al relativismo etico e ai totalitarismi del Novecento.
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Come si diceva, però, gli esiti di quell’appello si sono rivelati deludenti. Ad oggi, non sembra che le parole del Papa siano state ascoltate da scienziati e filosofi. Forse l’obiettivo di Ratzinger era troppo ambizioso, o forse, semplicemente, la storia ha preso un’altra direzione.
Oggi non è più possibile cancellare otto secoli di filosofia per tornare alla scolastica di Tommaso e Bonaventura, anche perché, dopo Kant, possiamo individuare almeno altre due ondate che hanno contribuito ad allargare ulteriormente il solco tra fede e ragione.
La prima ondata è rappresentata dalle riflessioni dei “maestri del sospetto”: Marx, Nietzsche e Freud.
La seconda è costituita dal postmodernismo, che di fatto ha portato alle estreme conseguenze una delle frasi più emblematiche di Nietzsche: “Non esistono fatti, ma solo interpretazioni”, divenuta la chiave di volta per estendere il relativismo all’etica e all’epistemologia.
Come si diceva, non è possibile cancellare otto secoli di pensiero occidentale; sarebbe già un grande passo avanti riuscire a superare l’insostenibile relativismo radicale del postmodernismo.
Paolo Mori