9 aprile 1975: Fellini vince il suo quarto Oscar con Amarcord

SMA MODENA

Il 9 aprile 1975 Federico Fellini vince il suo quarto Oscar con il film Amarcord.

La notorietà di questo film è tale che lo stesso titolo Amarcord, univerbazione della frase romagnola “a m’arcord” (“io mi ricordo”) è diventato un neologismo della lingua italiana, con il significato di rievocazione in chiave nostalgica.

Il film, che uscì nelle sale italiane il 13 dicembre 1973, fu poi presentato fuori concorso al Festival di Cannes 1974. Il film, la cui locandina e i titoli di testa sono opera del grafico statunitense John Alcorn, è stato selezionato tra i 100 film italiani da salvare.

La vicenda, ambientata dall’inizio della primavera del 1932 all’inizio della primavera del 1933 (riferimento certo visto la corsa della VII edizione della Mille Miglia), in una Rimini onirica ricostruita a Cinecittà, come la ricordava Fellini in sogno, narra la vita nell’antico borgo (o e’ borg, come a Rimini conoscono il quartiere di San Giuliano) e dei suoi più o meno particolari abitanti: le feste paesane, le adunate del “sabato fascista”, la scuola, i signori di città, i negozianti, il suonatore cieco, la donna procace ma un po’ attempata alla ricerca di un marito, il venditore ambulante, il matto, l’avvocato, quella che va con tutti, la tabaccaia dalle forme giunoniche, i professori di liceo, i fascisti, gli antifascisti e il magico conte di Lovignano, ma soprattutto i giovani del paese, adolescenti presi da una prepotente “esplosione sessuale”.

Tra questi è messo in particolare risalto il personaggio di Titta Biondi (pseudonimo per Luigi “Titta” Benzi, amico d’infanzia di Fellini) e tutta la sua famiglia: il padre, la madre, il nonno, il fratello e gli zii, di cui uno matto, chiuso in un manicomio. Attraverso le vicende della sua adolescenza, il giovane Titta inizierà un percorso che lo porterà, piano piano, alla maturità.

Amarcord è senza dubbio il più autobiografico dei film del regista riminese: il titolo stesso è un’affermazione e una conferma di ciò – a m’arcord “mi ricordo” – ed è proprio questo che Fellini ricorda attraverso gli occhi del suo alter ego (che per una volta non è Mastroianni, ma Bruno Zanin), il suo paese, la sua giovinezza, i suoi amici e tutte le figure che gli giravano attorno.

L’elemento autobiografico nell’arte di Fellini, comunque, è senza dubbio quello preponderante, basti pensare a Intervista, Roma ed a I Vitelloni: quest’ultimo caso, può essere considerato il “seguito” di Amarcord: i ragazzi sono cresciuti, i problemi sono altri, ma possiamo sempre riconoscere in Moraldo, il giovane che alla fine del film abbandona il paese natale per andare a vivere in una grande città, il giovane Fellini, che abbandona Rimini verso Roma. Un’ulteriore vena di “passato” la troviamo nelle musiche del maestro Nino Rota: musiche dolci, leggere come i ricordi che accompagnano e mostrano agli occhi degli spettatori.

Il ritorno di Fellini in Romagna si celebra dunque attraverso i piccoli accadimenti di una Rimini in pieno trionfalismo fascista tutt’altro che esaltato. Il ventaglio di una vita si apre nella coralità di un’opera degna del miglior Fellini, non a caso premiato con l’Oscar. Grazie alla collaborazione dello scrittore Tonino Guerra, davanti agli occhi dello spettatore sfila una ricchezza tale di volti e luoghi, divertimenti e finezze, malinconie e suggestioni, da far apprezzare il film a tutto il mondo. Attraverso i toni della commedia venata di malinconia, Amarcord distilla generosamente umori e sensazioni. Tutto ciò è riconoscibile nel film ma, come sottolinea Mario Del Vecchio, è la sostanza poetica che salta agli occhi. I protagonisti di Amarcord, e soprattutto le figure di contorno, non solo sono caricature di altrettante persone colte in un particolare momento storico; piuttosto, sono tipi universali, che vanno oltre la dimensione temporale per diventare immortali come, appunto, la poesia.