Beirut, anatomia di una città ferita (di Francesca Riggillo)

di UG

Appena atterrata a Beirut, mi appare subito evidente una cosa. La città in cui sto per immergermi non mi avrebbe accolto con sorrisi e cartoline. (leggi anche: Tra le rovine e la resilienza: reportage di Francesca Riggillo dal campo profughi di Chatila in Libano. FOTO)

Niente facciate rassicuranti, niente fronzoli o camouflage.

Questa città mi avrebbe posto davanti agli occhi le sue tante, troppe, ferite aperte, le cicatrici incise nel paesaggio urbano, nei palazzi sventrati, nei quartieri sospesi tra passato e presente. Sono venuta qui per seguirle, quelle ferite che sono anche strade, memorie, confini. Per provare a orientarmi dentro il loro dolore e capirne, almeno in parte, il senso.

La prima che vedo è anche la più imponente. Lungo la strada che costeggia il porto, un colosso di cemento attira lo sguardo: un vecchio silo per il grano, alto, grigio, spezzato a metà. È impossibile non vederlo, impossibile distogliere lo sguardo. Si staglia contro il mare, sventrato. È l’eco visiva dell’esplosione del 4 agosto 2020, giorno in cui Beirut fu investita da una delle deflagrazioni non nucleari più potenti della storia. Furono più di 200 le persone che persero la vita, 7.000 i feriti, più di 300.000 gli sfollati. Impressionanti i video che circolano in rete. Uno, in particolare, mi è rimasto impresso. Mostra una giovane sposa in abito bianco posare davanti a un edificio quando, all’improvviso, si sente un boato. Il vestito si solleva, la telecamera trema, un’onda di polvere sommerge la scena.


Nel cortile del museo Sursock mi imbatto quasi per caso in un memoriale, un’altalena dalle ali bianche costruita in ricordo della vittima più giovane dell’esplosione, Isaac Sidney Oehlers. Aveva due anni. A ucciderlo sono state 3000 tonnellate di nitrato di ammonio, sequestrate anni prima e dimenticate in un deposito del porto fino a quel giorno di inizio agosto del 2020, quando esplosero seminando morte e macerie.


Il carico era stato abbandonato dalla nave MV Rhosus salpata dalla Georgia e diretta in Mozambico. Bloccata a Beirut per questioni economiche, fu sequestrata dalle autorità. Nonostante gli avvertimenti delle dogane libanesi sulla pericolosità del materiale stoccato senza misure di sicurezza, nessuno intervenne. A cinque anni dall’accaduto, nessun responsabile è stato ancora incriminato. Solo silenzi, negligenze, traffici opachi.

Mi sposto nel sud della città, dove un’altra ferita continua a bruciare.

È Dahiyeh, quartiere popolare e roccaforte di Hezbollah. Qui, le bombe israeliane cadono ancora, nonostante il cessate il fuoco raggiuto nel novembre 2024. Gli attacchi mirano a obiettivi “strategici”, ma spesso colpiscono case piene di famiglie. La persona che mi accompagna, mi mostra edifici dimezzati, piani superiori scomparsi, interi palazzi ridotti a polvere. In alcuni casi, l’edificio che cercava di mostrarmi… non c’è più. La geografia di Beirut cambia in fretta. Ogni raid riscrive la mappa.

Incontro un volontario della protezione civile libanese. Vive a Dahiyeh. Ha il simbolo del Partito Comunista Libanese tatuato sul braccio. Mi racconta delle operazioni di soccorso durante i bombardamenti e dell’esplosione simultanea dei cercapersone, usata da Israele come tattica di guerra. Mi parla di corpi senza mani e senza occhi che ha tentato di recuperare. Di donne e bambini colpiti, salvati a metà, o perduti.

La guerra civile, le tensioni nei campi profughi, il San Valentino di sangue (attentato all’ex primo ministro Rafiq Hariri), i meravigliosi edifici Art Deco di downtown vuoti, malmessi e abbandonati… le ferite di questa città, di questo popolo, sono tante.

Torno a casa col cuore pesante ma con la ferma convinzione che la risorsa più preziosa di questo paese sia proprio lui, il suo popolo. Un popolo di una generosità e resilienza uniche. Un popolo che, quando scende la sera, si riversa nelle strade, si ritrova nei caffè, passeggia lungo il corniche come un respiro collettivo.

È un popolo che vuole vivere. Un popolo stanco, ma non vinto.

In più, torno a casa con la speranza di vedere, prima che il tempo mi chiami altrove, un treno partire da Beirut e arrivare a Gerusalemme, con a bordo i figli di una generazione che ha conosciuto solo frontiere e silenzi. Che non ha mai conosciuto la sua vicina di casa, la Palestina.

Come scrive uno dei giornalisti italiani che stimo di più, Alberto Negri, in Bazar mediterraneo (GOG Edizioni, 2021): “Questa città è un’araba fenice dove passato e presente si fronteggiano per raccontare che un futuro è ancora possibile. Abbandonata in balìa di una tempesta è una nave che alla fine non affonda. Beirut, in fondo, siamo anche noi.”

Francesca Riggillo, giornalista reporter

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