Crisi russo-ucraina a rischio l’export provinciale, l’abbigliamento tra i settori più a rischio. INTERVISTA a Fabio Pietrella del Maglificio Musetti

Sono 511 le imprese di Parma che commercializzano con Russia e Ucraina e che, oltre al caro energia, potrebbero subire forti contrazioni di fatturato (fonte Cciaa di Parma). Anche se ancora non sono stati elaborati i dati del primo trimestre 2022 e non abbiamo le dimensioni effettive del calo di fatturato, il rischio concreto che ci siano perdite consistenti è evidente.

Ma quanto vale l’export del parmense verso i due paesi?

Complessivamente nei primi nove mesi del 2021 le esportazioni parmensi verso Ucraina e Russia sono state del valore di oltre 151 milioni di euro (più di 125 milioni verso la Russia e circa 26 verso l’Ucraina), pari al 2,4% del totale export parmense e al 10,4% del totale export regionale verso quell’area.

In particolare, nell’ultimo triennio le imprese di Parma che hanno esportato prodotti verso l’Ucraina sono state 226 (40 le importatrici), con un valore del commercializzato che è sempre cresciuto nel tempo, passando da oltre 19 milioni nel 2018 a circa 29 milioni nel 2020 (+52,6% nel triennio). Sempre nello stesso periodo le imprese che hanno esportato prodotti verso la Russia sono state 373 (67 le importatrici), in questo caso però il valore del commercializzato nel 2020 era sceso di -0,5% rispetto al 2019, dopo un calo importante (-12,2%) registrato nel 2019 rispetto al 2018. Nel 2021 è stata registrata la terza miglior performance nell’export regionale in quell’area (dopo Ravenna con +4,9% e Piacenza con +0,6%).

Tra i settori che probabilmente subiranno maggiormente le conseguenze ci sono (in ordine decrescente per quote di export) il settore meccanico, quello farmaceutico, l’alimentare e l’abbigliamento. Abbiamo affrontato questo tema con Fabio Pietrella, general manager di Musetti (impresa parmigiana che da oltre 60 anni produce capi in cachemire) e presidente nazionale di Confartigianato Moda.

Visto la conoscenza approfondita del settore che quadro puoi fare a livello generale?

A livello generale, la moda è dal 2014, cioè da quando ci sono state le prime sanzioni alla Russia che registra cali consistenti di quote di export; parliamo di oltre 7 miliardi di euro per i due paesi complessivamente. Quella parte di Ucraina di cui oggi sentiamo parlare, mi riferisco a città come Donesk e Mariupol, per esempio, erano zone ricche che noi consideravamo piuttosto interessanti, sostanzialmente erano mercati emergenti. A livello italiano l’export verso Russia e Ucraina vale circa 1miliardo e 340 milioni di euro l’anno, è tra il 2 e il 3 % dell’export generale del settore. A prima vista possono sembrare numeri poco consistenti, ma non è così perché la maggior parte è prodotto dalle micro e piccole imprese. Quei mercati sono, infatti, particolarmente sensibili ai prodotti di alta qualità no branded quelli cioè che dove l’artigianalità è un ingrediente fondamentale.

Cosa significa quindi questa guerra per le micro e piccole imprese?

Per quella tipologia di imprese il mercato russo e ucraino era perfetto anche dal punto di vista dei pagamenti, perché erano garantiti, anche rispetto al mercato europeo o americano. I compratori erano abituati a pagare il 30% al momento della conferma dell’ordine e il 70% prima della consegna. Questo aspetto non è certo secondario per le imprese di piccole dimensioni che si trovavano ad avere il 100% pagamenti in cassa con la merce in magazzino pronta da spedire. Ciò garantiva una risorsa economica per acquistare tessuti, filati o per pagare gli stipendi in un momento già difficile per il rincaro delle commodities. Quindi la situazione tocca fortemente le micro e piccole imprese che rappresentano oltre il 98% della moda italiana. E si va a sommare al post pandemia: la moda era ancora fortemente in difficoltà dopo il Covid-19, con molti mercati ancora chiusi come quello giapponese per esempio dove non si può andare di persona.

Quindi il protrarsi di questa guerra, porta con se gravi rischi per la mia impresa e per le tante simili alla mia: si può arrivare alla desertificazione della filiera moda che significa la cancellazione del made in Italy cioè di tutte quelle aziende non orientate verso una politica di brand ma verso una politica di qualità di prodotto.

Per la tua azienda nello specifico cosa comporta?

Per quanto riguarda il maglificio Musetti, il fatturato che esprimevamo, fino al 2019, verso i mercati in questione era del 30-35%. Il covid ci ha dato una grande “mazzata”, perché abbiamo perso il 15-20% e oggi stiamo perdendo il 50% di quel 30 iniziale. Oltretutto è accaduto in un momento in cui a febbraio i nostri collaboratori erano in fiera a Mosca, al CPM Collection Premiere Moscow, che è il punto di riferimento del tessile italiano in Russia e finalmente avevamo tanti ordinativi, eravamo molto contenti del fatto che si tornasse a lavorare ai livelli pre pandemia. Io spero che questa non sia carta straccia, ma ultimamente stiamo cancellando alcuni ordini perché non arrivano gli anticipi, le difficoltà di pagamento sono enormi e poi ci sono file di camion alla dogana per gli attenti controlli UE. Per noi è una criticità molto importante.

Cosa chiedete al Governo?

Porto un esempio esterno a Parma, parliamo di distretti. Quello fermano, che è il distretto marchigiano della calzatura ha quote di export nei confronti di quelle aree che va dal 50 all’80% sono quindi molto esposti. Dal punto di vista etico abbiamo tutti appoggiato la risposta dell’Occidente all’aggressione, però proviamo anche a metterci nei panni degli imprenditori che hanno creato imprese che oggi hanno 50-60 anni di storia e per un motivo non dipendente dai loro prodotti né da strategie economiche sbagliate, ma per elementi esterni si trovano ad avere aziende che non sono più in salute e che sono al limite della chiusura.

Come Maglificio Musetti abbiamo 30 persone che collaborano con noi, ma se allarghiamo ai distretti ci sono centinaia di migliaia di persone che vivono di questo settore e questo dovrebbe allarmare.

Fino ad ora cosa è stato fatto?

La Regione Emilia-Romagna e anche il Governo ci hanno chiesto di identificare mercati alternativi, ma è una domanda fine a sé stessa perchè se ci fossero ci saremmo già stati. L’imprenditore non pregiudica alcun mercato. Al momento non ce ne sono altri altrettanto importanti che possano sostituire quello russo e ucraino. Al di là dei ristori, parola che non mi piace perché sa di resa, chiediamo un programma di rilancio serio con accordi e strategie bilaterali con altri paesi per supportare e sopportare l’assenza di fatturato. Politiche che non dell’usa e getta, ma di medio e lungo periodo. Il nostro paese sta latitando nelle strategie, soprattutto nei confronti del settore moda che tutti sappiamo essere quello più in difficoltà dal periodo di pandemia. Ci sono stati sostegni e bonus per l’automotive, per l’edilizia per tanti settori e mi chiedo quando lavoreremo su un progetto a medio termine per la moda? Come Confartigianato e come imprenditori abbiamo fatto tante proposte perché vorremmo avere la giusta dignità nelle agende politiche. Non si può chiedere a noi imprenditori di chiudere le aziende per motivi diplomatici.

La moda è il secondo asset strategico per il paese, dopo la meccanica e primo ambasciatore del made in Italy nel mondo. Credo meriti molto di più di dell’attenzione che ha avuto fino ad ora.

Tatiana Cogo

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