
28/10/2010
La vita sotto copertura di un agente della CIA e di suo marito, anch’egli impegnato in questioni di politica estera, viene sconvolta quando i due provano a mettersi di traverso alla decisione del governo di intervenire in Iraq per la presenza di armi di distruzione di massa.
Che le armi non ci siano, che gli oggetti etichettati come componenti per la costruzione di atomiche non siano pericolosi come si dice e che forse l’unica minaccia possono essere certi scienziati al lavoro sull’arma (già pronti a lavorare per altri stati in caso di intervento), i coniugi lo sanno bene ma la decisione di esporsi sarà fatale per la loro reputazione.
Lentamente, di film in film, gli americani tentano di spiegare a se stessi e agli altri come si sia arrivati al conflitto iracheno degli ultimi anni e quale tipo di degrado istituzionale abbia portato alla sventurata e incredibile decisione. Tutto il cinema di guerra che non è impegnato a raccontare il conflitto nella sua universalità (come fa The hurt locker, che è perfettamente svincolabile dal suo contesto spazio-temporale), si concentra nello svelare le pieghe delle magagne statali che hanno portato gli USA in Iraq.
Fair game si inserisce dunque non tanto nel solco dei film di guerra, quanto in quello dei film politici ambientati a Washington, tra il Parlamento e la Casa Bianca, e non si vergogna di affermare una sostanziale incompetenza della CIA, la corruzione dello stato e la pavidità di molti suoi esponenti i quali, una volta dichiarato lo stato di guerra, non hanno avuto il coraggio di andare contro l’establishment e mostrare la realtà dei fatti di cui erano a conoscenza.
La storia poi ha ancora più forza perchè basata su un fatto vero che nel 2003 ha occupato per diverso tempo le prime pagine dei giornali americani e il regista non manca di sottolinearlo, mostrando la vera protagonista nelle immagini finali.
Se dunque le intenzioni sono delle migliori la realizzazione è a dir poco pessima. Non solo nella prima parte del film il racconto si dilunga su fatti non cruciali e riassumibili in poco, ma anche nella seconda, nella quale si giunge al vero cuore del racconto, non c’è mordente. Doug Liman decide di fare spazio all’intreccio relegando il cinema, ovvero il lavoro degli attori, dei fotografi, dei montatori e via dicendo, solo ad alcune impennate le quali, isolate, non possono che suonare ridicole.
Per il resto in Fair game regna una noiosa desolazione che alterna le trite e retoriche immagini della sfiducia del cittadino verso le istituzioni (le tristi passeggiate nei parchi antistanti il Congresso o la Casa Bianca) a lunghe filippiche sull’ingiustizia perpetrata verso gli innocenti e sull’amore verso la famiglia (argomento molto sottolineato ma francamente sempre un po’ fuori luogo in un film che vorrebbe parlare d’altro).
(Si ringrazia Mymovies.it per la collaborazione)
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