
Justine è la figlia di un importante membro dell’ONU e vive dentro una campana di vetro, una buona occasione per uscirne è partecipare all’azione di un gruppo di attivisti che manifestano davanti casa sua: andare nella foresta amazzonica, incatenarsi a degli alberi che stanno per essere abbattuti e riprendere tutto con dei cellulari in modo da creare consapevolezza nel mondo su quanto stia succedendo. Parte così alla volta del Perù con un folto gruppo di suoi coetanei di città ma terminata l’azione, nel volo di ritorno, un malfunzionamento li fa precipitare in mezzo a quella foresta che vogliono proteggere, proprio nelle braccia di una tribù di cannibali i quali non vedono di buon occhio i bianchi.
Il gore e l’orrore spesso passano per la mutilazione e la macellazione dei giovani corpi di ragazzi e ragazze, ma il cinema di Eli Roth ha elevato questa pratica a regola, presupposto di base e non fine ultimo, aumentando dosaggio ed efferatezza e diminuendo la complessità dello sfondo. Amante degli effetti poco rassicuranti provocati dall’essere lontani da casa (meglio se in altri stati) e delle ipocrisie di chi si culla in sogni intellettuali cosmopoliti senza sapere in realtà nulla dei luoghi che frequenta (è spesso questa la causa degli orrori nei suoi film), per il suo ritorno alla regia dopo diversi anni di silenzio il regista ripropone tutti i suoi temi tipici, unendoli con quella che dichiara da sempre essere la madre delle proprie fonti d’ispirazione: Cannibal holocaust.
Del film di Ruggero Deodato censurato in quasi tutto il pianeta The green inferno riprende tutti i presupposti di base, cambiando solo la motivazione che porta i protagonisti nella foresta. Ancora una volta dunque Eli Roth mostra un altrove e degli stranieri come la forma più pura e spaventosa di minaccia, dotati di motivazioni imperscrutabili o (in questo caso) indiscutibili, implacabili nell’esecuzione e determinati a provocare dolore. The green inferno tuttavia, pur eccedendo in sangue ed esposizione delle interiora, non raggiunge le vette di violenza della serie Hostel, configurandosi come una versione (solo di poco) più soft della caratteristica per la quale il regista è più noto.
Questo remake non dichiarato che evita la parte “found footage” del film di Deodato e invece inietta, specie nel finale, alcuni elementi del vengeance movie, ha dunque il solo merito di non essere mai buonista e di attendere tutti quanti i personaggi al varco per mostrarne l’inconsistenza e l’intrinseca malignità.
È evidente che ad uscirne meglio di tutti sono i cannibali (in quanto onesti rispetto alla loro pratica e spinti all’efferatezza contro i protagonisti dalle azioni dei loro simili che ne distruggono l’habitat naturale a colpi di bulldozer), “cattivi non cattivi” di un film che pare voler dare quel che si meritano agli attivisti da 4 soldi, “abbraccia alberi” che partono alla volta del Perù con fare snob da privilegiati, almeno tanto quanto lo vuole darlo a chi massacra i nativi per fini commerciali.
Il gore e l’orrore spesso passano per la mutilazione e la macellazione dei giovani corpi di ragazzi e ragazze, ma il cinema di Eli Roth ha elevato questa pratica a regola, presupposto di base e non fine ultimo, aumentando dosaggio ed efferatezza e diminuendo la complessità dello sfondo. Amante degli effetti poco rassicuranti provocati dall’essere lontani da casa (meglio se in altri stati) e delle ipocrisie di chi si culla in sogni intellettuali cosmopoliti senza sapere in realtà nulla dei luoghi che frequenta (è spesso questa la causa degli orrori nei suoi film), per il suo ritorno alla regia dopo diversi anni di silenzio il regista ripropone tutti i suoi temi tipici, unendoli con quella che dichiara da sempre essere la madre delle proprie fonti d’ispirazione: Cannibal holocaust.
Del film di Ruggero Deodato censurato in quasi tutto il pianeta The green inferno riprende tutti i presupposti di base, cambiando solo la motivazione che porta i protagonisti nella foresta. Ancora una volta dunque Eli Roth mostra un altrove e degli stranieri come la forma più pura e spaventosa di minaccia, dotati di motivazioni imperscrutabili o (in questo caso) indiscutibili, implacabili nell’esecuzione e determinati a provocare dolore. The green inferno tuttavia, pur eccedendo in sangue ed esposizione delle interiora, non raggiunge le vette di violenza della serie Hostel, configurandosi come una versione (solo di poco) più soft della caratteristica per la quale il regista è più noto.
Questo remake non dichiarato che evita la parte “found footage” del film di Deodato e invece inietta, specie nel finale, alcuni elementi del vengeance movie, ha dunque il solo merito di non essere mai buonista e di attendere tutti quanti i personaggi al varco per mostrarne l’inconsistenza e l’intrinseca malignità.
È evidente che ad uscirne meglio di tutti sono i cannibali (in quanto onesti rispetto alla loro pratica e spinti all’efferatezza contro i protagonisti dalle azioni dei loro simili che ne distruggono l’habitat naturale a colpi di bulldozer), “cattivi non cattivi” di un film che pare voler dare quel che si meritano agli attivisti da 4 soldi, “abbraccia alberi” che partono alla volta del Perù con fare snob da privilegiati, almeno tanto quanto lo vuole darlo a chi massacra i nativi per fini commerciali.
(Si ringrazia Mymovies.it per la collaborazione)
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