
«Lindbergh è un simbolo del coraggio ma anche dell’intelligenza, del desiderio di percorrere una strada fino a dove pensi di poter arrivare, anche se quel punto poi non sai se lo raggiungi» (Ivano Fossati)
Parlare di Ivano Fossati oggi, nel 2025, è qualcosa di strano. Infatti, da quando ha lasciato le scene – nel 2012, con sparuti ritorni, tra cui la collaborazione prestigiosa con Mina nell’album “Mina Fossati” del 2019 – la sua produzione, immensa sul piano artistico, è come entrata in un limbo, con la scommessa implicita di “come ci si ricorderà delle canzoni di Fossati tra x anni?”.
Domanda difficile, soprattutto per chi, come il sottoscritto, considera Fossati nella top ten dei più grandi autori italiani di canzoni, insieme a De Andrè, De Gregori, Guccini, Dalla, Battiato, Conte, Bersani, Fabi, Benvegnù. Non scandalizzatevi se non metto Battisti, che è musicista più che cantautore.
Non è facile scegliere un album di Fossati, tra gli altri. Anzi, è decisamente una scelta che crea sofferenza. Personalmente, credo che siano tre gli album che se la giocano alla pari: gli altri sono “La pianta del te” (1988) e “Macramè” (1996). Scelgo “Lindbergh”, ovvero quello che punta più precisamente sulla forma canzone. Quello che più di tutti fa i conti con “La Canzone popolare”. Che, detto per inciso, è uno dei pezzi meno interessanti dell’intero album, nonostante il successo mediatico e diciamo politico dello stesso (portò fortuna all’Ulivo del primo Prodi, che lo scelse come inno). Ma, si sa, gli inni hanno una funzione sociale e non si discutono. Sono da piazza, non da cameretta. Parlano alla pancia e al cuore insieme. Come questa canzone riesce a fare.
In effetti, l’orecchio inizia a prestare attenzione al lato musicale con “La barca di legno di rosa” – testo da fiaba popolare e arpa di Vincenzo Zitello ad impreziosire il raffinato tappeto ritmico-armonico – che rappresenta la vera apertura tematica di “Lindbergh”.
“Sigonella” poi, splendida nel suo lirismo contenuto, che racconta della base americana Nato in Sicilia e di un episodio storico preciso, dei movimenti notturni di aerei, vissuti con l’angoscia di un bambino e con la consapevolezza amara di un adulto.
L’album è del 1992, annus horribilis di Tangentopoli… Come Francesco De Gregori in “Canzoni d’amore” e due anni prima Fabrizio De Andrè in “Le Nuvole”, i nostri migliori cantautori sentono l’urgenza di affrontare temi politici e sociali, alla loro spesso sublime maniera. Come fa Fossati a più riprese in “Lindbergh”.
“La Madonna nera” – altro capolavoro di composizione e produzione – che con il suo incedere processionale, denuncia la sordità delle “istituzioni” sacre e laiche rispetto ai bisogni umani, all’idea di un progresso socialmente equo… Tutto questo mescolato con la fatica del quotidiano. Meravigliosa!
Tutti i testi di questo album si possono definire “impegnati”: eppure la maestria di Fossati sta nell’evitare cadute di stile, in quanto forzature, sia musicali che testuali. La scelta di mantenere scarna l’esecuzione de “Il disertore” di Boris Vian, (nella traduzione in italiano di Calabrese) per sola chitarra e voce, da sicuramente la cifra dell’ispirazione profonda di Ivano Alberto. Che ha qui il merito di far conoscere al pubblico italiano il più bell’inno antimilitarista di sempre.
La canzone che più tocca le corde del cuore, quella in questo senso più popolare, è “Mio fratello che guardi il mondo”: l’intreccio tra la chitarra acustica e la tabla (Trilok Gurtu) ci dona un esempio tanto sentito quanto stilisticamente perfetto di canzone ecumenica, con l’occhio agli ultimi, a tutti gli ultimi della terra. La sua attualità rimane urgente. A me richiama “Imagine”… Non so a voi.
“Notturno delle tre” potrebbe essere nata dalla penna di Tom Waits e dal bandoneon di Piazzolla, uniti insieme per un’inedita meraviglia: il lato torbido dell’ispirazione emerge nel suo fascino, tra una cadenza di tango e un passo femminile a scandire il rapimento sensuale. Tematiche che saranno sviluppate con gusto rinnovato in “Macramè”, l’album successivo (ad esempio nella meravigliosa “L’orologio americano”).
La voglia di lanciare messaggi chiari sul tema del pacifismo torna con “Poca voglia di fare il soldato”, in cui emerge anche una propensione alla forma tradizionale della canzone, propensione già emersa in “700 giorni” e che vedrà un Fossati ingaggiato in uno dei più grandi capolavori della musica d’autore italiana, ovvero “Anime salve”, pochi anni dopo, a quattro mani con Fabrizio De Andrè.
“Ci sarà” invece sembra ripescata dagli anni della RCA (gli anni settanta), che spesso furono da lui denigrati, a mio parere in modo ingeneroso, perché a mio modo di vedere Ivano Fossati rimane uno dei migliori scrittori di canzoni classic rock italiane, capace di sprovincializzare il sound e di nobilitare il pop rock italico.
Si chiude con un capolavoro minimale, che è ben rappresentato dalla magnifica copertina: lo sguardo di “Lindbergh” dall’alto della traversata diventa la confessione di chi cerca di vivere volando alto. Spingendoci verso l’alto. C’è grande musica, c’è un grande messaggio, in uno splendido testo. Grazie ad un grande Ivano Alberto Fossati.
Vorrei segnalare il collettivo che si occupò di suonare e produrre questo capolavoro.
Ivano Fossati: voce, chitarra acustica, ocarina, pianoforte e tastiera
Beppe Quirici: basso, contrabbasso, produzione
Armando Corsi: chitarra classica
Stefano Melone: tastiere
Claudio Fossati ed Elio Rivagli: batteria e percussioni
Trilok Gurtu: tabla, rullante, percussioni
Vincenzo Zitello: arpa celtica, tin whistle
Mario Arcari: oboe
Maria Caruso: voce
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Alberto Padovani