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24/12/2010
Intervista al parmigiano Nicola Vernizzi, da quasi vent’anni tatuatore nonchè fotografo.
Com’è il tuo rapporto con la fotografia?
L’arte ha sempre accompagnato la mia vita con la pittura, la scultura, la lavorazione di metalli preziosi (che comunque considero scultura) e infine i tatuaggi.
Tante volte queste forme d’espressione si sono intersecate tra loro; le sculture ormai le ho abbandonate, la pittura ancora a tratti ritorna a farmi visita. L’unica cosa che ha rappresentato una costante nella mia vita è la fotografia. Prima in maniera discreta, anche solo documentativa, poi, dopo l’avvento del digitale, ho cominciato a sperimentarla come forma d’arte vera e propria.
Circa sei anni fa mi sono innamorato della fotografia naturalistica, specialmente la macrofotografia, ed è con questa che ho affinato la tecnica ed ho imparato a padroneggiare strumentazioni e software.
L’anno scorso durante due viaggi, uno in Borneo, l’altro in Giappone, ho portato le mie attenzioni sui primati e visti i risultati ottenuti, il passo successivo è stato la figura umana. Ho ripercorso fotograficamente l’evoluzione della nostra specie partendo dagli esseri più semplici e primitivi, per arrivare al più complesso ed evoluto.
Parlaci di “This is my good eye” (d’ora in poi TIMGE), il libro che hai dato alle stampe proprio in questi giorni.
“This Is My Good Eye” è una raccolta di ritratti di personaggi indiani, ma anche di situazioni rurali o urbane. Le foto sono state scattate in due differenti viaggi entrambi nel 2010.
Nel primo a gennaio ho viaggiato in alcune località in Uttaranchal, Uttar Pradesh proseguendo poi per il Rajastan.
Nel secondo, da luglio a settembre, partendo dal’ Imachal Pradesh, sono sceso nella Parvati Valley; da li sono tornato a Delhi, ho proseguito per Varanasi, visitando alcune località nelle vicinanze di questa città sacra (una delle più antiche al mondo) ed infine ho concluso il mio pellegrinaggio a Kolkata (Calcutta), nel West Bengala. Sono stati due viaggi molto faticosi che mi hanno segnato profondamente. Specialmente il secondo che oltre ad essere stato minato da un lungo periodo di malattia, mi ha portato in zone dell’India che non conoscevo, dove ho trovato crude realtà, di cui prima avevo solo sentito parlare.
Nel libro ho preferito non mettere le immagini più forti che ho realizzato, ne sarebbe nato un libro di denuncia, e non era quella la mia intenzione. Ma ugualmente, quei corpi devastati, quei bambini con le pance gonfie tipiche della denutrizione e i volti delle donne sfregiate con l’acido, continuano a farmi visita come fantasmi ogni volta che sfoglio quelle pagine, pur non facendone parte.
Da cosa è nata l’idea di creare questo libro fotografico sull’India?
TIMGE è nato quasi per gioco: volevo semplicemente fare pratica nella ritrattistica, ma visto i risultati delle prime foto ne è nato subito un progetto per un libro. Mi trovavo ad Haridwar, era la mia tredicesima esperienza indiana; ho sempre amato viaggiare, ma l’India in particolare ha un fascino quasi magnetico per me.
In quei giorni stava per iniziare la festività del Kumb Mela (la festa religiosa che raccoglie più fedeli al mondo), bramini e sadhu cominciavano ad arrivare a frotte, e dopo un primo approccio con questi ultimi, mi sono reso conto che i miei scatti non illustravano ciò che veramente volevo esprimere. Non era quella l’India che conoscevo e che volevo descrivere, o forse non era alla mia portata; volevo qualcosa di più semplice. Così ho cominciato a fotografare la gente di strada nelle sue situazioni più quotidiane e banali.
Artigiani, commercianti, lavoratori, ma anche persone che vivono ai margini della società, che pur ripudiandola e sfuggendola ne fanno parte. Tra questa gente semplice ho trovato i miei soggetti, e già dai primi scatti ho capito che era quella la strada da seguire, quella era la mia India. Fatta di persone semplici, laboriose, quasi sempre molto povere, a volte che non hanno nulla se non quello che indossano. Ma ugualmente in grado di dare così tanto a livello umano.
Come mai la scelta dell’India come location per le foto che compongono il libro?
Fotograficamente l’India è un paradiso. Ogni strada, ogni angolo, ogni volto, quasi tutto merita di essere fotografato.
L’India è piena di colori, di bizzarrie, di situazioni che spesso rasentano il surreale. Mucche per strada, un’incredibile varietà di personaggi, spesso nel caos più totale. Ma anche templi di una bellezza unica, campagne silenziose e meditative, parchi naturali in cui è possibile osservare e fotografare specie molto rare di animali in libertà. Esistono poi zone dell’India, fortunatamente chiuse al turismo se non tramite particolari permessi, in cui vivono ancora popolazioni tribali la cui quotidianità è paragonabile all’età della pietra.
So che tu hai una predilezione per gli occhi: il titolo “Questo è il mio occhio buono” è in parte un retaggio di questa tua particolare passione?
Trovare il titolo per questo libro non è stato facile, erano mesi che ci pensavo e qualsiasi cosa mi venisse in mente sembrava banale o inadeguata.
Alla fine ho chiesto aiuto ad un amico e insieme abbiamo dedicato una serata a questa ricerca. Dopo circa tre ore di inutili sforzi mi è venuta in mente una canzone dei Soundgarden, nel cui inizio, una voce fuori campo dice questa frase seguita da un muggito. Era il titolo perfetto. L’intero libro è fatto di sguardi quasi sempre molto intensi, i soggetti fotografati guardano sempre l’obiettivo.
I miei non sono scatti rubati, ma sempre frutto di un rapporto, a volte di ore, di giorni, o anche di pochi istanti. Ho quasi sempre cercato l’attenzione dei soggetti e il loro sguardo. Non credo possa esserci qualcosa di più espressivo dello sguardo umano. Il mio occhio buono è quello che filtra la realtà attraverso una fotocamera, quello che non giudica. Quello che mi permette un distacco quasi totale dalla realtà che mi circonda, pur riportandone ogni dettaglio.
Luci e ombre di una nazione vasta e ricca di contraddizioni come è quella indiana. Parlaci della tua esperienza dal punto di vista umano.
Luci, ombre e contraddizioni esistono in tutte le società. In quella indiana spesso sono più esasperate. Gli indiani il più delle volte sono persone stupende, ma spesso sprovviste del senso della privacy come lo intendiamo noi occidentali, quindi possono crearsi situazioni non sempre facili da affrontare. Ciò che ad un indiano può sembrare perfettamente normale, per noi può essere incomprensibile e viceversa.
La cosa migliore è arrendersi subito ai loro ritmi, senza farsi prendere troppo in giro. L’India non è per tutti. Non se la si vuole vivere approfondendone un minimo le sue peculiarità, le sue usanze, la conoscenza della sua gente.
A volte si vivono situazioni che sono incredibilmente scomode, ma osservando gli indiani che le sperimentano quotidianamente, capendoli e riuscendo a far tesoro di ciò, non si può che tornare arricchiti umanamente da un viaggio del genere. Chi sfoglierà il mio libro lo farà il più delle volte in silenzio. Quello che non traspare dalle foto è il rumore assordante dei clacson, della gente che urla, degli odori sgradevoli che in India sono praticamente onnipresenti.
Ciò può portare ad avere un idea molto romantica e fiabesca di quella terra. In realtà l’India è perlopiù caos, sia sonoro che olfattivo, ma anche tattile, visto che per gli indiani il contatto fisico tra persone dello stesso sesso è molto più comune che da noi. Può capitare di vedere due poliziotti che vanno in giro tenendosi per mano, una scena impensabile da noi, ma perfettamente normale per loro.
Una cosa che ho sempre amato degli indiani è lo spiccato senso dell’humor, la loro tendenza, spesso fatalista, nello sdrammatizzare e ironizzare sulle situazioni, belle o brutte che siano. A volte ci si può sentire presi in giro, vedendo un indiano che ci sorride mentre si sta’ imprecando perché si è messo un piede su una cacca di mucca indossando delle infradito, ma nell’attimo successivo è lui il primo a dirti “is good luck”, porgendoti la mano per aiutarti. In oltre pur viaggiando con costose attrezzature fotografiche appese al collo, non mi sono mai sentito in pericolo in India. Forse è anche per questo senso di pacifica sicurezza che ci sono tornato tante volte.
Come commenti la seguente frase: “Viaggio di un parmigiano in India; realtà minuscole e sterminate a confronto”.
L’India è grande, ma perlopiù, escluse le poche metropoli, è fatta di piccoli villaggi o paesi. Quando sono in India non mi sento un parmigiano, sono solo un occidentale. Anche se cappelletti e prosciutto quando sono là mi mancano sempre molto…
Tornerai ancora in India o per i prossimi viaggi hai in mente altre mete?
A volte penso che sia l’India che decida quando devo andare da lei. Dopo quattordici viaggi, alcuni durati svariati mesi è difficile pensare di non tornarci più, la voglia c’è sempre.
Le prossime mete però saranno altre zone dell’Asia che non ho mai visitato. Aspetterò che sia l’India a chiamarmi.
Se uno ne volesse acquistare una copia di TIMGE cosa dovrebbe fare?
Il libro al momento si trova in vendita nel mio negozio in via La Spezia 151b (Parma), www.plasmatic.net oppure sul sito www. thisismygoodeye.com
Clicca qui per vedere alcuni scatti preso dal libro “This is my good eye” di Nicola Vernizzi.