
“E qualcosa rimane, tra le pagine chiare e le pagine scure…” un’intro che ha fatto la storia della musica d’autore italiana.
“Rimmel” è una canzone che profuma di capolavoro dal primo ascolto… e continua, ascolto dopo ascolto. Ancora più di “Alice”, il primo capolavoro di De Gregori, che risale appena a due anni prima.
È l’essenza del cantautore romano: qualità compositiva, leggerezza, intensità poetica… un’esecuzione particolare, quasi una bossa irregolare a livello ritmico, controbilanciata dall’attitudine folk mutuata da Bob Dylan, che nel 1975, guarda caso, arrivava alla vetta delle sue lovesong con l’album “Blood on the tracks”.
Se dovessimo definire “Rimmel” di De Gregori con una parola dovremmo dire “eleganza”. Francesco arrivava da due album molto acustici e minimali: si, teniamo volutamente da parte “Theorius Campus”, il debutto a due con Venditti, dove quest’ultimo sembra complessivamente più pronto per il confronto con il pubblico.
Ecco: sebbene “Alice non lo sa” (1973) e “Francesco De Gregori” (quello dell’agnello in copertina per capirci, del 1974) siano buoni album, quest’anno si celebrano i 50 anni dal suo primo capolavoro.
La tracklist di “Rimmel” è da paura.
La scorrerò come se la stessimo ascoltando insieme, rifuggendo da note biografiche, contestualizzazioni sociopolitiche etc… Trovate tutto su carta e on line. Consiglio, tra gli altri “Mi puoi leggere fino a tardi” di Enrico Deregibus.
Album composto da 9 canzoni (per alcuni il numero perfetto per un album di canzoni), che resta nella mezzora, ma non da assolutamente un senso di brevità incompiuta, piuttosto di completezza e maturità.
Dopo la title-track parte un altro classicone del Principe: “Pezzi di vetro”, con un’armonizzazione affidata al solo thumbpicking della chitarra acustica, piuttosto difficile da eseguire, soprattutto perché il cantato è piuttosto irregolare. Chissà se e quanto si possa definire autobiografico. A livello stilistico si ricollega ai primi due album, ma con un’intenzione più lieve, come a dire… “andiamo oltre il Folkstudio”, chissà verso dove… il dove lo dirà la storia musicale di Francesco De Gregori, uno tra i principali cantautori italiani, per lo scrivente il più grande.
“Il Signor Hood”, dedicata a Marco Pannella, è un country un po’ troppo nervoso nell’esecuzione, soprattutto a livello ritmico: forse per questo risulta il pezzo più debole dei nove… ripreso in modo molto più convincente in vari live, dove il testo, graffiante e ironico, esce in modo più convincente.
Parte “Pablo”, e non ce n’è per nessuno: un dipinto neorealista… Torna la Svizzera della “Casa di Hilde”, ma qui siamo di fronte ad un brano di impatto sociale – infatti è dedicato ad un operaio italiano morto in Svizzera, con buona pace di Neruda – e non più al quadro intimo e dolente ispirato alla figura del “doganiere”.
Qui siamo di fronte al terzo capolavoro su quattro canzoni. Grazie anche al coautore, un certo Lucio Dalla (che tornerà poi a fare i cori in “Quattro cani”).
Non fa in tempo a sfumare l’amara “Pablo” che entra in campo “Buonanotte fiorellino”, pezzo dolcissimo in 3, ottimo per chiudere il lato A (ah già, chi si ricorda più del cambio di lato del vinile?), che si permette anche il lusso di una salita di tono. Lieve, poetico e spesso sottovalutato se non criticato aspramente da alcuni giornalisti seriosi… Sembra un remake di Bob Dylan? Si certo, di “Winterlude” (contenuta in “New Morning”) ..sai che critica dire a Francesco che ha copiato Dylan): De Gregori avrà l’intelligenza di non lasciarlo perdere nel tempo.
Cambiamo lato, con “Le storie di ieri”, un testo importante che trova posto con leggere modifiche in “Volume 8” di De Andrè (album che ha visto i due collaborare): “Mussolini ha scritto anche poesie, i poeti… che brutte creature: ogni volta che parlano è una truffa”. Il sapore degli anni 70 – le tensioni sociali e politiche, gli scontri ideologici che poi sfoceranno negli “anni di piombo”- arriva tutto durante l’ascolto.
Arriva Dalla ai cori e arriva un altro capolavoro: “Quattro cani”, meraviglioso affresco metaforico, che ci riconduce quasi ad un ambiente mitteleuropeo, accentuato dalla teatralità di Lucio Dalla, presente nei cori (ma non solo)… “la terza è una cagna, quasi sempre si nega, qualche volta si da, e semina i figli nel mondo, perché è del mondo che sono figli, i figli… se ci fosse la luna, se ci fosse la luna si potrebbe cantare” …e infatti ci si ritrova a canticchiarla.
Si resta a bocca aperta anche sulla successiva “Piccola mela”, ballata dal sapore antico. Il De Gregori trobadorico avrebbe potuto andare fuori tema… e invece sforna un capolavoro (il settimo su otto), sottolineato da una chitarra deliziosa e da un intarsio corale di rara delicatezza. La vocalità un po’ dimessa dei precedenti fa spazio a un cantante vero.
Si chiude con “Piano bar”, ballad che musicalmente si ricollega come atmosfera all’iniziale “Rimmel”, a chiudere il cerchio… Echi dei cantautori britannici anni 70 (Elton John, Al Stewart, ma anche l’americano James Taylor per dirne solo tre) e sonorità morbide e jazzate.
Canzone di grande qualità, rimane un passo indietro rispetto alle altre, nonostante funzioni molto bene come ultimo pezzo, a distendere dopo un ascolto intenso (sebbene siano tutte ballate). La presenza continua del piano elettrico “Fender Rhodes” la rende un po’ superata a livello di arrangiamenti… anche se la bellezza di questo strumento non smette di affascinare, anche a distanza di tempo.
“Rimmel” è tutto qui: una mezzoretta di pura grazia, tanto che ti viene da ricominciare: e così, se rimettiamo sul piatto questo vinile, dopo averlo sfilato dall’elegante (indovinatissima) copertina, riviviamo l’effetto che si ha davanti ai capolavori… Ci si immerge nuovamente nella grazia… “Come quando fuori pioveva e tu mi domandavi, se per caso avevo ancora quella foto, in cui tu sorridevi e non guardavi…”
Alberto Padovani
Recensioni necessarie #3