Parola d’ordine… a’mbecilli

01/10/2013

Il mestiere del congiurato non è adatto ai fregnoni! Non si può chiedere la parola d’ordine al primo che bussa…

Nell’anno del Signore è un film del 1969, scritto e diretto da Luigi Magni e basato su un fatto realmente accaduto, l’esecuzione capitale di due carbonari nella Roma papalina. È il primo della trilogia proseguita con In nome del Papa Re (1977) e In nome del popolo sovrano (1990); film nei quali ricorre il tema del rapporto tra il popolo e l’aristocrazia romana con il potere pontificio, tra gli sconvolgimenti accaduti nel periodo risorgimentale.
Roma, 1825: è in corso il pontificato di Leone XII, caratterizzato da una politica reazionaria e intransigente, in cui la repressione di qualsiasi forma di libertà individuale è attuata da uno stato di polizia e dalle trame del subdolo cardinale Agostino Rivarola.
Gli ebrei sono costretti a rimanere rinchiusi nel Ghetto e continuamente umiliati da forzati tentativi di conversione; la polizia fa rispettare un rigido coprifuoco; perfino gli osti sono obbligati a servire il vino al di fuori dei cancelli delle osterie, per evitare che gli avventori seduti ai tavoli possano creare disordini. Malgrado tutto, sulla statua parlante di Pasquino vengono continuamente affissi scritti ironici e duramente critici nei confronti del governo; e soprattutto si svolgono nella massima segretezza delle riunioni della carboneria, che auspicano, sia pure in forma vaga e contraddittoria, una rivoluzione popolare che possa portare a una nuova realtà istituzionale.
Due carbonari, Leonida Montanari, romano, e Angelo Targhini, modenese, si ritengono costretti a uccidere un loro compagno, il principe Filippo Spada, che, in crisi di coscienza a causa di una malattia mortale della sua bambina, si era pentito dell’affiliazione alla carboneria e aveva rivelato dei segreti al suo confessore.
Spada, però, riesce a salvarsi dalle ferite di coltello di Targhini e Montanari e li denuncia alla polizia pontificia: la sorte dei due carbonari è segnata, e dopo un processo sommario senza adduzione di prove, i due sono condannati alla ghigliottina. La storia si intreccia con quella del ciabattino Cornacchia e della sua amante Giuditta, una bellissima ragazza ebrea. I due, meno colti e meno inclini ai cambiamenti radicali rispetto ai carbonari, si erano legati però di affetto con Montanari e Targhini (Giuditta, tra l’altro, si era innamorata di Montanari) e si sforzano di aiutarli.
Cornacchia propone al cardinal Rivarola di rivelargli l’identità di Pasquino una volta ottenuta la grazia per i due condannati: dato che Pasquino è lui stesso, il ciabattino offre di fatto la propria vita per quella dei carbonari. Ma è tutto inutile: Rivarola ritiene che le punizioni esemplari siano fondamentali per mantenere l’ordine nello Stato Pontificio, e prova a ingannare Cornacchia consegnandogli una lettera che, anziché la grazia, contiene l’ordine di arresto per il latore.
Targhini e Montanari, in attesa della fine, sono imprigionati in Castel Sant’Angelo. Viene inviato loro un frate, sinceramente devoto e appassionato sostenitore del potere papale, che insiste perché si confessino per salvarsi l’anima in punto di morte: ma i carbonari, pur provando una certa simpatia per il frate, sono fermi nel loro ateismo oltre che nella loro opposizione al potere temporale dei papi, e rifiutano qualsiasi conforto religioso. Solo per un momento i due si illudono, sentendo rumori provenienti dall’esterno, che i romani siano dalla loro parte: ma i popolani, al contrario, desiderano assistere all’esecuzione e anzi si lamentano perché l’evento viene ritardato.
Gli eventi sembrano dar ragione al cardinal Rivarola: il popolo non vuole la libertà, ma il quieto vivere e ogni tanto qualche diversivo, costituito nella fattispecie da un ghigliottinamento pubblico.
Targhini e Montanari vengono così ghigliottinati in Piazza del Popolo dal boia (allora chiamato, a Roma, Mastro Titta). “Siete l’omo più moderno de Roma” gli dirà ironicamente Montanari sul patibolo, sottolineando che rispetto alla società di antico regime quella della Restaurazione aveva accettato una sola innovazione, la ghigliottina appunto.

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