
Il 2 febbraio 1990 viene ucciso a Roma Enrico De Pedis.
Enrico De Pedis, detto Renatino è stato un criminale italiano e boss dell’organizzazione criminale romana banda della Magliana.
Nato e cresciuto nel cuore del quartiere romano di Trastevere, De Pedis inizia la sua carriera nella mala capitolina come scippatore per poi passare, molto presto, alle rapine legandosi ad una batteria di malavitosi dell’Alberone.
Il 20 maggio del 1974 viene arrestato per la prima volta e, nel 1977, torna di nuovo dietro le sbarre per una rapina, commessa anni prima con Alessandro D’Ortenzi (detto Zanzarone) e sconta la pena fino all’aprile del 1980.
Sempre ben vestito e ben pettinato e con una cura maniacale della propria immagine, tanto da meritarsi l’appellativo di “bambolotto”, pare trascorresse più tempo in profumeria che in mezzo alla strada. Il 25 giugno 1988 si unisce in matrimonio con la fidanzata Carla Di Giovanni, conosciuta nel quartiere Testaccio.
Durante la sua carcerazione, Franco Giuseppucci (detto er Negro), uno dei futuri componenti della banda e incaricato di curare la custodia e la conservazione delle armi di pertinenza di Renatino (cosa che di solito fa anche per conto di altri criminali romani), subisce il furto di un Maggiolone a bordo del quale si trova un borsone di armi affidatogli proprio da Enrico De Pedis. Dopo accurate ricerche, Giuseppucci viene a sapere che le armi, incautamente sottratte da Giovanni Tigani (detto Paperino), sono finite nelle mani di una batteria del quartiere San Paolo capeggiata da Maurizio Abbatino a cui, quindi, er Negro si rivolge per reclamarne la restituzione.
Dall’incontro tra i tre nasce quindi l’idea di unire le forze in campo per trasformare quella che in un primo tempo era nata come una semplice “batteria” in una vera e propria “banda” per il controllo della criminalità romana e che, da li a poco, verrà conosciuta come banda della Magliana. De Pedis, il quale non fumava, non beveva e neppure assumeva sostanze stupefacenti, al contrario degli altri appartenenti alla banda (tutti cocainomani), fu comunque uno dei pochi a possedere uno spiccato “spirito imprenditoriale”: mentre molti altri sperperavano i propri bottini, egli, investiva, anche in attività legali (imprese edili, ristoranti, boutique…), i proventi derivanti dalle azioni criminose.
Il debutto come banda è il sequestro del duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere, il 7 novembre 1977 che, per l’inesperienza nel campo, finirà nel sangue con l’uccisione del nobiluomo, ma con il riscatto di due miliardi comunque incassato. De Pedis, che non aveva partecipato all’esecuzione del sequestro in quanto ancora detenuto, si vide comunque riconosciuta una quota di quindici milioni di lire.
De Pedis, a capo della fazione testaccina della banda in cui ci sono, tra gli altri, l’amico di sempre, Raffaele Pernasetti (detto “er palletta”) e Danilo Abbruciati, venne favorito nella conquista del potere anche dalla prematura scomparsa di Giuseppucci ed Abbruciati, entrambi assassinati, sfruttando la cosa per stringere contatti con potenti esponenti delle organizzazioni di criminalità organizzata, in particolare siciliana e per intraprendere un’attività di reinvestimento di ingenti somme di denaro in affari speculativi, in campo finanziario ed edilizio.
Nei suoi ultimi anni di vita, tentò di affrancarsi dai suoi trascorsi malavitosi, per migrare verso uno stato sociale più consono alle proprie aspirazioni, in ciò favorito dalle ingenti risorse finanziarie di cui disponeva. In quest’ultimo periodo era solito farsi chiamare “il presidente” e ad interessarsi d’arte, frequentando le migliori botteghe antiquarie della capitale.
De Pedis iniziò a non dividere più i proventi delle attività con i suoi ex complici carcerati e i loro familiari. Si sentiva sciolto da tale obbligo, perché ormai i suoi introiti provenivano in buona parte da attività sue e non rientravano più nei bottini comuni. Gli altri lo interpretarono come uno sgarro da far pagare caro e nel 1989 Edoardo Toscano, appartenente alla fazione dei maglianesi, opposta a quella dei testaccini di cui De Pedis era il leader, appena uscito dal carcere si mise sulle sue tracce per ucciderlo. De Pedis fu più rapido: lo attirò in un’imboscata con un pretesto e lo fece uccidere dai suoi guardaspalle Angelo Cassani detto Ciletto e Libero Angelico, meglio noto negli ambienti malavitosi col soprannome di Rufetto.
Quando evase dal carcere Marcello Colafigli, la fazione dei maglianesi iniziò a riorganizzarsi per eliminare De Pedis. L’occasione si presentò quando riuscirono a convincere Angelo Angelotti (già legato in passato alla famigerata banda romana, nel 1981 con le sue “soffiate” aveva permesso a Danilo Abbrucciati di uccidere Massimo Barbieri) a fissare un appuntamento con Renatino il 2 febbraio 1990a via del Pellegrino, nei pressi di Campo de’ Fiori a Roma.
Appena finita la conversazione con l’Angelotti, il De Pedis salì sul suo motorino Honda Vision e fece per avviarsi, ma venne affiancato al civico 65 di Via del Pellegrino da una potente motocicletta con a bordo due killer provenienti dalla Toscana, Dante Del Santo detto “il cinghiale” e Alessio Gozzani, assoldati per l’occasione, che gli spararono un solo colpo alle spalle, uccidendolo all’istante, davanti ad alcuni passanti.
Nei pressi erano appostati, su almeno due autovetture, diversi membri della banda, con funzione di copertura e supporto. Alessio Gozzani fu poi scagionato dall’accusa di essere stato alla guida della moto, condotta forse da Antonio D’Inzillo deceduto latitante in Sud Africa nel 2008.
Il Pm Andrea De Gasperis riferì alla giornalista Raffaella Notariale che i killer di De Pedis erano stati tenuti sotto controllo sin dai primi passi della preparazione del delitto. In un rapporto dell’Alto commissariato per il coordinamento alla lotta contro la delinquenza mafiosa è ricostruito l’intero delitto, dalla preparazione, alla città in cui si rifugiano i killer, fino alla loro cattura all’estero, sulla base del quale fu istruito il processo agli assassini di De Pedis.
Chi stilò quel rapporto non mosse un dito per sventare l’agguato. Si è sempre parlato dell’omicidio come un regolamento dei conti all’interno della malavita romana, ma resta il sospetto che i servizi segreti possano aver avuto un ruolo nell’eliminare Renatino, divenuto troppo potente e troppo informato.