
“The screen door slams, Mary’s dress waves…” e il film può avere inizio… uno dei tanti film divorati da un adolescente inquieto che aveva riposto nella sua chitarra da due soldi – con cui i suoi genitori lo avevano sedato, quando non poteva ancora permettersi la mitica Telecaster – tutti i sogni di cui era capace.
Il film era lo stesso di tanti suoi coetanei americani. Ma la forza con cui Bruce lo ha sognato e desiderato era incalcolabilmente maggiore. Una forza e un’energia che lo hanno portato, da allora fino ad oggi ad essere il più grande performer rock di sempre.
Ma, oggettivamente, non lo sarebbe diventato senza questa sua pietra miliare, di cui vedete qui la copertina. Che poi è una pietra miliare per l’intera storia del rock.
Ma, un attimo… Riavvolgiamo il nastro e torniamo all’anno prima di “Born to run”.
“Ho visto il futuro del rock’n’roll e il suo nome è Bruce Springsteen”, frase celebre del suo futuro produttore John Landau, pronunciata quando, nel 1974, vide esibirsi un giovane, ma non imberbe Bruce Springsteen in un locale del Massachussets… anche se a noi piace pensarlo nel New Jersey, patria amata da questo italo-irlandese, che, se non avesse una passione smisurata per la musica potrebbe solo fare il Presidente degli USA, vista la sua popolarità e soprattutto il suo modo di rappresentare in superficie e in profondo la cultura musicale e non solo degli States.
Dio solo sa quanto sarebbe meglio avere lui con Patti Scialfa alla Whitehouse, piuttosto di quel pazzoide di Trump. Anzi, lo sappiamo anche noi, ormai.
Ma torniamo al nostro film. Dopo alcuni mesi da quel memorabile concerto, e dopo due album che io reputo bellissimi – il felice e acerbo debutto di “Greetings from Asbury Park N.J”. e soprattutto “The wild, the innocent & the E Street shuffle” – Bruce è chiamato a scegliere se restare nella vastissima schiera dei “minori” o spiccare il salto verso l’olimpo del rock.
Di fronte a questa sfida il Boss, insieme alla sua E Street Band – fa sul serio, forse troppo per le sue intenzioni di partenza, tanto che dichiarerà di avere odiato “Born to run”, perché figlio di registrazioni troppo veloci e di una pressione esterna che a uno spirito libero come il suo sicuramente non piacque. Ma, a posteriori, e a dolorosa distanza da quel periodo musicale fantastico, non possiamo che gioire per questo album roboante, frutto frettoloso della grande “vigna” springsteeniana, a partire dall’intro di “Thunder road”, viaggio nel mito musical-stradale, caro al “nostro” come a migliaia di altri ribelli americani.
Solo che qui il sogno – vestito di rock dolce e insieme epico – si misura immediatamente con la disillusione, e la Mary del testo non è un angelo: “You’re not a beauty, but that’s all right for me”, canta uno Springsteen che non vuole restare un “lonely heart” – localmente parlando uno sfigato – come quelli cantati da Roy Orbison, citato in apertura di pezzo. Il paradiso si raggiunge solo sulle due ruote, ed è
un posto non ben definito (il west permane come archetipo), che serve più che altro a liberarsi da una città “full of losers”.
È il tema dei vincenti e perdenti a entrare prepotentemente nel linguaggio di uno Springsteen non più narratore dylaniano, come nei primi due album, ma protagonista in prima persona di una parabola ascendente e inarrestabile, di cui si fa portavoce.
La medaglia è doppia: dall’altra parte ti aspetta il retro del sogno americano, quello che lascia i perdenti lungo una delle qualsiasi “Backstreets” – imponente e solenne inno all’amore magicamente conquistato e rabbiosamente perso, suonato magnificamente da Roy Bittan e Danny Federici, al piano e alle tastiere e cantato con toni quasi lirici (come tutto il disco, in cui la voce di Springsteen assume un tono molto italoamericano… non è un caso se in Italia troverà gloria).
L’apice di questa epica dei losers, che per Bruce diventerà una dannazione dell’anima, si trova tre anni dopo in “Darkness on the edge of town”, e lì sarà lui a sedersi e a farsi sanguinare il suo “broken heart” insieme ai tanti, e a lottare contro un feroce Dio biblico, attualizzato, che non contempla il riscatto e la redenzione, se non attraverso il patimento nelle “Badlands”.
In “Born to run” la medaglia è voltata verso il lato più splendente, come nella roboante title-track, in cui i “broken heroes” viaggiano a massima velocità sulla “highway” per lasciare illusoriamente alle spalle il fallimento, e persino quando in “Jungleland” si compie una mirabile panoramica dei luoghi più squallidi di una metropoli, trasformando una battaglia di quartiere in un’opera rock, condensata in otto minuti di capolavoro assoluto.
Se voi, sempre parlando ai venticinque lettori, non avete mai sentito “Jungleland” sentitevi in colpa e rimediate al più presto! Anche perché non si sentirà spesso un’E Street così in forma e un Boss con una
voce così potente: “She’s the one” per esempio è un’affermazione della volontà di potenza declinata in rock, così come “Nessun dorma” la è declinata in lirica… (e qui l’ho sparata grossa e me la tengo!).
I perdenti sono da un’altra parte, magari lungo il fiume per un traffico illecito, cantato sottovoce nell’ispirata “Meeting across the river”, con una tromba superba e un’atmosfera jazzata diversa dal resto delle canzoni. I perdenti sono laggiù… Qui si festeggia sulla “Tenth avenue freeze out” – superbo rythm’n’blues con i fiati più belli del repertorio springsteeniano – e ci si esalta nella sudata “Night”
metropolitana, che segue altrettanto sudati “workin days”… E qui si insinua un altro leit motiv che vedrà Springsteen diventare un vero e proprio “working class hero”, soprattutto nell’epocale doppio “The river”.
D’altronde, per chi allora si era cimentato nell’E Street shuffle e nella magia di “New York City serenade” la conferma e consacrazione di Bruce era solo questione di tempo: la forza di “Born to run” è di renderla violentemente presente. In un modo che Springsteen eviterà volutamente di riproporre – o lo farà dieci anni dopo, in modo più nationalpop e meno estremo, in “Born in the U.S.A.” – l’altro mega successo del Boss – o contro il quale addirittura si batterà. Infatti, solo sei anni dopo arriverà “Nebraska”, in cui Bruce chitarra, voce e armonica scaricherà la sua rabbia in modo altrettanto coraggioso e radicale.
“Born to run” è quindi il momento centrale, ancora oggi, nel lungo corridoio di trionfi del Boss: il momento in cui vengono cancellate le ormai inutili comparazioni con Dylan, che lui ha sempre adorato – sua la frase “Elvis Presley ha rivoluzionato il nostro corpo, Bob Dylan la nostra mente” – ma che ha lasciato alle spalle, come si fa con i veri maestri. E, come fanno gli allievi che superano il maestro, la sintesi
produce innovazione, qui raccolta in un disco che suona ancora forte, e che va ascoltato tutto senza skippare, ad alto volume, magari un pomeriggio estivo o meglio ancora in una notte lungo la Via Emilia, la nostra Thunder Road, il nostro film stradale.
La sfida è quella di abbandonarsi senza riserve ad un capolavoro che compie mezzo secolo, senza sentirsi troppo vintage: vi assicuro che non ci vuole molto per vincerla… grazie al Boss!
Vi lascio qui il link all’ascolto di “Born to Run”. Gli altri album e le altre canzoni citate sono direttamente linkati lungo l’articolo.
Recensioni necessarie #8
Alberto Padovani
(Springsteen con Clarence “Big Man” Clemmons, foto da cui è tratta la copertina)