Christian Black è un imprenditore di colore arricchitosi col traffico di droga. Hannah Steele una studentessa di letteratura inglese che si guadagna da vivere come commessa in un negozio di ferramenta. Quando un’amica le chiede di sostituirla nell’intervista al giovane manager, i due si incontrano e ne nasce presto un ingaggio sessuo-amoroso che prevede maldestre pratiche di sadismo in un rapporto contrattualizzato tra dominatore e sottomessa.
L’idea, sulla carta, poteva risultare vincente. Prendere uno dei casi editoriali e cinematografici di maggior successo degli ultimi anni, portare a caricatura i cliché di un soggetto erotico già parodico di suo, scritturare due interpreti di origine afroamericana a cui affidare la parte dei protagonisti e trarne spunto per aggiungere una sana dose di satira sociale. Il titolo è azzeccato: Fifty Shades of Black, ‘Cinquanta sfumature di nero’, che in Italia diventa ‘sbavature’ per non confonderlo col sequel della saga che in originale suona invece Fifty Shades Darker, effetto domino esemplare dei danni prodotti dalla titolatura nostrana. Un’operazione che avrebbe potuto funzionare se la materia grigia, appunto, fosse stata quella dei ZAZ o di altri che, come Jim Abrahams e i fratelli Zucker, hanno fatto la fortuna passata del genere parodistico-demenziale. Diverso il caso in cui la firma è di Mike Tiddes, assistito ancora una volta da Marlon Wayans davanti e oltre la macchina da presa in qualità di sceneggiatore-produttore assieme a Rick Alvarez, gli stessi che ci hanno regalato la doppietta di Ghost Movie, un nome un programma.
Se il remake ricalca fin troppo fedelmente la messa in scena del lungometraggio di Sam Taylor-Johnson – concedendosi giusto un paio di digressioni in forma di flashback – la storia diventa facile pretesto per espletare una comicità avvizzita. Col paradosso che il film parte dagli stereotipi di un feuilleton castrato ad arte per il grande pubblico per approdare nuovamente a quelli di un formato, il comic-movie così fatto, consunto da anni, generando un cortocircuito in cui lo spettatore è costretto a guardare senza poter prendere parte. Mentre la questione razziale non supera la rappresentazione di colore, come da titolo, stupisce come venga trascurata la pur ricca vena di sessismo che percorre il primo capitolo della trilogia scritta da E. L. James. Le gag sono prevedibili nel miglior caso: il tour in elicottero privato tra i grattacieli di Seattle viene commutato in una corsa ben più modesta su un autobus di linea, mentre la stanza dei giochi diventa ovviamente, come suggerito dallo stesso modello drammatico, il luogo dove entrare in intimità con gamepad e console. Ma nonostante le frecciatine ai repubblicani di Donald Trump e le strizzate d’occhio al cinema più recente (da Whiplash a Magic Mike), quello di Mike Tiddes e compagni resta un prodotto provinciale quanto fieramente anacronistico.
L’idea, sulla carta, poteva risultare vincente. Prendere uno dei casi editoriali e cinematografici di maggior successo degli ultimi anni, portare a caricatura i cliché di un soggetto erotico già parodico di suo, scritturare due interpreti di origine afroamericana a cui affidare la parte dei protagonisti e trarne spunto per aggiungere una sana dose di satira sociale. Il titolo è azzeccato: Fifty Shades of Black, ‘Cinquanta sfumature di nero’, che in Italia diventa ‘sbavature’ per non confonderlo col sequel della saga che in originale suona invece Fifty Shades Darker, effetto domino esemplare dei danni prodotti dalla titolatura nostrana. Un’operazione che avrebbe potuto funzionare se la materia grigia, appunto, fosse stata quella dei ZAZ o di altri che, come Jim Abrahams e i fratelli Zucker, hanno fatto la fortuna passata del genere parodistico-demenziale. Diverso il caso in cui la firma è di Mike Tiddes, assistito ancora una volta da Marlon Wayans davanti e oltre la macchina da presa in qualità di sceneggiatore-produttore assieme a Rick Alvarez, gli stessi che ci hanno regalato la doppietta di Ghost Movie, un nome un programma.
Se il remake ricalca fin troppo fedelmente la messa in scena del lungometraggio di Sam Taylor-Johnson – concedendosi giusto un paio di digressioni in forma di flashback – la storia diventa facile pretesto per espletare una comicità avvizzita. Col paradosso che il film parte dagli stereotipi di un feuilleton castrato ad arte per il grande pubblico per approdare nuovamente a quelli di un formato, il comic-movie così fatto, consunto da anni, generando un cortocircuito in cui lo spettatore è costretto a guardare senza poter prendere parte. Mentre la questione razziale non supera la rappresentazione di colore, come da titolo, stupisce come venga trascurata la pur ricca vena di sessismo che percorre il primo capitolo della trilogia scritta da E. L. James. Le gag sono prevedibili nel miglior caso: il tour in elicottero privato tra i grattacieli di Seattle viene commutato in una corsa ben più modesta su un autobus di linea, mentre la stanza dei giochi diventa ovviamente, come suggerito dallo stesso modello drammatico, il luogo dove entrare in intimità con gamepad e console. Ma nonostante le frecciatine ai repubblicani di Donald Trump e le strizzate d’occhio al cinema più recente (da Whiplash a Magic Mike), quello di Mike Tiddes e compagni resta un prodotto provinciale quanto fieramente anacronistico.
(Si ringrazia Mymovies.it per la collaborazione)
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