Da dove ripartire?

SMA MODENA
lombatti_mar24

09/08/2012
h.11.00

Perché nessuno prende sul serio Federico Pizzarotti, il sindaco grillino di Parma, quando esorta le forze politiche a mettere da parte gli interessi di parte e collaborare per il bene comune? Perché di fronte alla crisi generalizzata la gran parte dei partiti nazionali pensa più alle rendite di posizione che al bene del Paese? Perché nel nostro piccolo quotidiano sono più le volte che ci arrabbiamo con i nostri vicini di quelle in cui gli diamo una mano? Comunità locali, Comunità nazionale, Comunità Europea, tutto quanto oggi è comunitario, eppure la nostra società è diventata una grande Babele di singoli, gruppi e interessi incapaci di comunicare tra di loro. Tutti contro tutti: le nazioni, i partiti, le lobby, le associazioni, persino le famiglie non riescono più ad avere sentimenti e progetti comuni.
Gli interessi nazionali (e la risposta burocraticamente accentratrice di Bruxelles) mettono in crisi l’Europa, gli interessi di parte impediscono alla politica di affrontare con efficacia le sfide del Paese, gli interessi particolari rendono fragile ogni tentativo di pensare il “bene comune”, interessi, pretese e diritti individuali rendono insopportabili i colleghi di lavoro, i vicini di casa, il proprio coniuge.
“E’ il fallimento del Progetto Illumunista” dice il filosofo morale Alasdair McIntyre: che descrive le nostre società come luoghi di dissensi incompatibili e incommensurabili che conducono a un’insanabile frammentazione. “Una società compartimentalizzata, produce un’etica frammentata”, spiega il filosofo scozzese autore del celebre “Dopo la virtù”. Non vorrei essere preso per matto, ma penso non abbia tutti i torti nemmeno Pietro Barcellona nel suo “Viaggio nel Bel Pese” quando scrive “nessuno si chiede mai se fra il delitto di Perugia, la diffusione della pedofilia, il degrado della scuola, la violenza dei giovanissimi e il collasso della politica ci sia un qualche rapporto”. Per poi aggiungere: “Gli intellettuali alla moda si compiacciono della ‘frantumazione istantanea’ come liberazione dell’agire di ogni modello o paradigma, salvo poi accusare i politici di incapacità di decidere, ignorando il dato elementare che ogni decisione è sempre una proposizione sintetica che unifica i frammenti. La società non è corporativa a causa della politica, ma, al contrario, la politica è indecisa a causa della frammentazione corporativa”. E’ chiaro che poi questa classe politica ci ha messo del suo e di questa frammentazione ha approfittato per guadagnare quote di potere fino a diventare sempre più chiusa e autoreferenziale. Probabilmente senza rendersene nemmeno conto fino in fondo, si è nutrita delle debolezze della società, anziché essere uno strumento per contribuire a sanarle, e ha finito per snaturare il proprio ruolo e per tradire la propria ragione sociale. Al punto che oggi non solo non è più capace di prendere decisioni utili, ma nemmeno di comprendere la realtà.
Questo ha generato una profonda frattura con il Paese, ma limitarsi a puntare il dito contro la politica inefficiente è facile e può essere anche giusto, però lascia tutti a metà del guado.
La questione è posta nella maniera più drammaticamente semplice e attuale da Roger Scruton in un suo recente colloquio con Il Foglio: “la crisi attuale ci ha fatto capire che quando le cose vanno male i politici ci chiedono sacrifici e si aspettano che li facciamo. Ma com’è possibile sacrificarsi se non esiste un sentimento di appartenenza?” Poche parole, chiare e senza fronzoli per porre una questione cruciale: quello che ci manca per uscire dalla crisi, per riacquistare fiducia nella classe dirigente, ma anche per ricostruire il tessuto sociale frammentato nelle nostre città, per riannodare i fili di una unità nazionale tanto celebrata quanto virtuale, di un’Europa tenuta insieme da burocrazie e moneta (e divisa dallo spread) è il senso di appartenenza.
Comunità oggi non è più una parola tabu, è solo una parola vuota. Per quanto costantemente evocata.
Però è da lì che dobbiamo ripartire, sia per andare d’accordo con il nostro vicino di casa che per risanare il debito pubblico. Perché se la politica non riesce ad andare oltre l’abituale teatrino, se bisogna affidarsi a freddi burocrati per provare a rimettere il Paese in carreggiata (e dopo cosa si fa?), se in questo marasma ognuno cerca di salvare la propria (e solo la propria) pelle, il problema non è solo politico, ma sociale, educativo, culturale. Come si è già scritto su queste pagine: il nostro è un Paese in perenne fuga dalle proprie responsabilità a tutti i livelli. E questo è il risultato di decenni di cattiva educazione, pessime antropologie e conformismo culturale dispensati a piene mani anche da molti custodi della morale dell’oggi.
Il dibattito politico oggi non può più prescindere da questo ordine di considerazioni, non può limitarsi al braccio di ferro su quale legge elettorale sia più utile per favorire la propria parte o quale alleanza contronatura si è disposti ad accettare per conquistare il potere. Se non si inizia a ricostruire dalle basi, se non ci si sottrae tutti al gioco delle parti, la torre cadrà di nuovo. Con lo spread o senza lo spread. Grillo o non Grillo.

Andrea Ansaloni
Revolvere
___

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Consiglieri e assessori comunali: i cittadini si esprimono sul loro operato

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09/08/2012
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Gli interessi nazionali (e la risposta burocraticamente accentratrice di Bruxelles) mettono in crisi l’Europa, gli interessi di parte impediscono alla politica di affrontare con efficacia le sfide del Paese, gli interessi particolari rendono fragile ogni tentativo di pensare il “bene comune”, interessi, pretese e diritti individuali rendono insopportabili i colleghi di lavoro, i vicini di casa, il proprio coniuge.
“E’ il fallimento del Progetto Illumunista” dice il filosofo morale Alasdair McIntyre: che descrive le nostre società come luoghi di dissensi incompatibili e incommensurabili che conducono a un’insanabile frammentazione. “Una società compartimentalizzata, produce un’etica frammentata”, spiega il filosofo scozzese autore del celebre “Dopo la virtù”. Non vorrei essere preso per matto, ma penso non abbia tutti i torti nemmeno Pietro Barcellona nel suo “Viaggio nel Bel Pese” quando scrive “nessuno si chiede mai se fra il delitto di Perugia, la diffusione della pedofilia, il degrado della scuola, la violenza dei giovanissimi e il collasso della politica ci sia un qualche rapporto”. Per poi aggiungere: “Gli intellettuali alla moda si compiacciono della ‘frantumazione istantanea’ come liberazione dell’agire di ogni modello o paradigma, salvo poi accusare i politici di incapacità di decidere, ignorando il dato elementare che ogni decisione è sempre una proposizione sintetica che unifica i frammenti. La società non è corporativa a causa della politica, ma, al contrario, la politica è indecisa a causa della frammentazione corporativa”. E’ chiaro che poi questa classe politica ci ha messo del suo e di questa frammentazione ha approfittato per guadagnare quote di potere fino a diventare sempre più chiusa e autoreferenziale. Probabilmente senza rendersene nemmeno conto fino in fondo, si è nutrita delle debolezze della società, anziché essere uno strumento per contribuire a sanarle, e ha finito per snaturare il proprio ruolo e per tradire la propria ragione sociale. Al punto che oggi non solo non è più capace di prendere decisioni utili, ma nemmeno di comprendere la realtà.
Questo ha generato una profonda frattura con il Paese, ma limitarsi a puntare il dito contro la politica inefficiente è facile e può essere anche giusto, però lascia tutti a metà del guado.
La questione è posta nella maniera più drammaticamente semplice e attuale da Roger Scruton in un suo recente colloquio con Il Foglio: “la crisi attuale ci ha fatto capire che quando le cose vanno male i politici ci chiedono sacrifici e si aspettano che li facciamo. Ma com’è possibile sacrificarsi se non esiste un sentimento di appartenenza?” Poche parole, chiare e senza fronzoli per porre una questione cruciale: quello che ci manca per uscire dalla crisi, per riacquistare fiducia nella classe dirigente, ma anche per ricostruire il tessuto sociale frammentato nelle nostre città, per riannodare i fili di una unità nazionale tanto celebrata quanto virtuale, di un’Europa tenuta insieme da burocrazie e moneta (e divisa dallo spread) è il senso di appartenenza.
Comunità oggi non è più una parola tabu, è solo una parola vuota. Per quanto costantemente evocata.
Però è da lì che dobbiamo ripartire, sia per andare d’accordo con il nostro vicino di casa che per risanare il debito pubblico. Perché se la politica non riesce ad andare oltre l’abituale teatrino, se bisogna affidarsi a freddi burocrati per provare a rimettere il Paese in carreggiata (e dopo cosa si fa?), se in questo marasma ognuno cerca di salvare la propria (e solo la propria) pelle, il problema non è solo politico, ma sociale, educativo, culturale. Come si è già scritto su queste pagine: il nostro è un Paese in perenne fuga dalle proprie responsabilità a tutti i livelli. E questo è il risultato di decenni di cattiva educazione, pessime antropologie e conformismo culturale dispensati a piene mani anche da molti custodi della morale dell’oggi.
Il dibattito politico oggi non può più prescindere da questo ordine di considerazioni, non può limitarsi al braccio di ferro su quale legge elettorale sia più utile per favorire la propria parte o quale alleanza contronatura si è disposti ad accettare per conquistare il potere. Se non si inizia a ricostruire dalle basi, se non ci si sottrae tutti al gioco delle parti, la torre cadrà di nuovo. Con lo spread o senza lo spread. Grillo o non Grillo.

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