E’ morto Germano Nicolini, il “comandante Diavolo” protagonista della Resistenza e del “Chi sa parli”

SMA MODENA
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Si è spento nella sua casa di Correggio a 100 anni Germano Nicolini (ne avrebbe compiuti a breve 101), noto partigiano come “comandante Diavolo” per il suo protagonismo durante la Resistenza e accusato ingiustamente dell’omicidio di Don Umberto Pessina a seguito del quale venne condannato a 22 anni di carcere scontandone 10 grazie all’indulto.

Nicolini nacque a Fabbrico, in provincia di Reggio Emilia.

Durante la seconda guerra mondiale confluì nella Resistenza italiana diventando comandante del terzo battaglione della 77ª Brigata SAP “Fratelli Manfredi”, composto da 900 uomini. Durante questo periodo acquisì i soprannomi di Demos, poi Giorgio e infine Diavolo, datogli per una fuga rocambolesca dai tedeschi. Egli stesso ha in seguito raccontato: «Ero in bicicletta, disarmato, in una zona che credevo sicura. I tedeschi sbucarono da un argine. Mi buttai giù e corsi zigzagando tra gli alberi, mentre quelli sparavano all’impazzata. Da una finestra due sorelle, nostre staffette, esclamarono: “L’è propria al dievel”».

Segretario dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI) di Correggio, si distinse nell’immediato dopoguerra come pioniere della riconciliazione nazionale aprendo una mensa del reduce cui potevano accedere partigiani ed ex-fascisti che non si erano macchiati di crimini. Alla domanda: «Rifarebbe oggi ciò che fece allora?», Nicolini rispose: «Certo che lo rifarei, perché non ho nulla di cui pentirmi o vergognarmi, avendo sempre fatto il partigiano nel più assoluto rispetto delle norme internazionali di guerra, come da trattato di Ginevra».

Il 18 giugno 1946 nei pressi della parrocchia di San Martino Piccolo, una frazione di Correggio, venne ucciso sulla porta della canonica con due colpi di pistola don Umberto Pessina. Dopo due arresti errati di persone che avevano avuto dei dissapori col prete, del delitto, che si unisce alle altre esecuzioni sommarie eseguite dopo la liberazione, vennero accusati Germano Nicolini, Ello Ferretti e Antonio Prodi (detto Negus), tre partigiani, i quali vennero arrestati nel 1947. I sospetti si concentrarono su Nicolini in seguito alla rivelazione di una donna, Ida Lazzaretti, che testimoniò di averlo sentito pronunciare la sera precedente il delitto le seguenti parole: «Quel prete bisogna subito toglierlo dal mondo». Nel 1992, quando venne riaperto il caso, la nipote di Lazzaretti affermò che la donna aveva confessato a suo figlio di avere mentito al processo, spinta a fare ciò dal parroco di Correggio, don Enzo Neviani, mediante una ricompensa economica.

Ma i veri responsabili erano Cesarino Catellani, Ero Righi e William Gaiti, anch’essi partigiani; i primi due, nel gennaio 1948, un anno e mezzo dopo il delitto, dopo essere fuggiti in Jugoslavia confessarono addirittura spontaneamente il crimine, che commisero per errore, ma non furono creduti e vennero condannati per autocalunnia.

Non venne dato il giusto valore alle testimonianze che asserivano che Nicolini giocava a bocce in un paese vicino.

Nel 1990 il caso venne riaperto su invito dell’onorevole comunista Otello Montanari, che incitò la popolazione, con un articolo ribattezzato Chi sa parli, a rivelare informazioni riguardo ai delitti avvenuti nel Triangolo della morte durante gli anni quaranta.

La Corte d’appello di Perugia nella sentenza di assoluzione scrive: «Pertanto la Corte ritiene, in conformità a quanto sostenuto dalla difesa del Nicolini, che una serie di fattori – indagini di polizia giudiziaria condotte con metodi non del tutto ortodossi; lacune e insufficienze istruttorie; una sorta di “ragion di Stato di partito” che ebbe ad ispirare il comportamento di alcuni uomini del PCI; una pressante quanto legittima domanda di giustizia da parte del clero locale, estrinsecatasi però in iniziative al limite dell’interferenza; interventi di autorità non istituzionali e comunque processualmente non competenti – abbia fatto sì che la legittima esigenza di individuare e punire gli autori del grave quanto gratuito fatto di sangue si risolvesse, oggettivamente, in una sorta di ricerca del colpevole a tutti i costi, dando luogo ad un grave errore giudiziario, al quale la Corte ha ritenuto ora di dove reporre riparo assolvendo ampiamente gli imputati e restituendoli alla loro dignità di innocenti».