Il Museo della Stasi, da vedere… almeno quanto l’Appennino (di Andrea Marsiletti)

In questa estate 2020 Covid-19 la vacanza giusta è quella nell’Appennino, ci mancherebbe, alla riscoperta delle cose semplici della vita, financo di noi stessi in quelle meditazioni contemplative tra sentieri e ruscelli incontaminati.

E poi postare tutto su Facebook e Instagram mentre finalmente si respira a pieni polmoni.

Guai a chi osasse opporsi a questa visione bucolica del virus!

Però è bella, almeno quanto l’appennino parmense, che so, anche una città come Berlino. Io ci sono stato quest’inverno. Non solo per ripercorrere i resti del muro ancora in piedi disseminati qua e là lungo la “cortina di ferro” o passare sotto la Porta di Brandeburgo, ma per andare a scoprire alcuni posti insoliti, non per questo meno affascianti.

Uno di questi è il Museo della Stasi, proprio all’interno di quella che fu la sua sterminata sede centrale.

Il Ministerium für Staatssicherheit (Ministero per la Sicurezza di Stato, la principale organizzazione di sicurezza e spionaggio dell’allora Germania dell’Est – DDR), comunemente noto come Stasi, è stato il servizio di sicurezza più efficace di tutto il mondo, non solo del blocco socialista. Con oltre 38 mila agenti segreti operanti nell’Europa occidentale e oltre 600 mila informatori all’interno del Paese (su una popolazione di 16,6 milioni di persone nel 1988), la portata della Stasi era pressoché illimitata. Superiore a quella di altri due mostri sacri dello spionaggio, quali la Khad, fondata nel 1980 nella Repubblica Democratica dell’Afghanistan (una speciale task force del Kgb a Kabul durante l’intervento sovietico contro i mujaheddin) e la Securitate della Repubblica socialista di Romania di Nicolae Ceaușescu.

Per la sua capacità di infiltrazione nella popolazione e di repressione di qualsiasi elemento ostile o ritenuto tale al regime comunista, la Stasi si conquistò l’ammirazione dei colleghi sovietici del KGB che la invitarono persino ad aprire proprie basi operative a Mosca e Leningrado. Dopo sette anni in cui rimase sotto il pieno controllo del KGB, in un rapporto “capo-subordinato”, nel 1957 la Stasi divenne completamente indipendente dai sovietici. Non so chi altri riuscì a liberarsi dal giogo del KGB, la Stasi ci riuscì.

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Nulla era sconosciuto alla Stasi: è stato calcolato che gli scaffali dei suoi archivi di intelligence, comprese registrazioni audio e microfilm, si estendessero per oltre 150 chilometri.

Nel museo ci sono stanze che mostrano attrezzature e tecnologie utilizzate per spiare sospettati e oppositori (cavi, proiettori a infrarossi, microfoni invisibili, microspie, ricetrasmittenti, barattoli in vetro con brandelli di tessuto per l’identificazione olfattiva dei sospetti e macchine fotografiche mascherate da oggetti di uso quotidiano…), altre in cui viene spiegata l’educazione politica rivolta ai membri della Stasi, una gigantesca macchina di standardizzazione che portava a un’incondizionata fedeltà verso la classe operaia e il partito marxista-leninista.

Ci sono ancora gli arredi originali della segreteria, dell’ufficio e dello spazio privato dell’ultimo ministro Erich Mielk, di altri uffici dei più stretti collaboratori, sale conferenze e la mensa.

Passeggiare per quelle scrivanie in legno, telefoni grigi e ferri da stiro con i quali si richiudevano delicatamente le lettere private dei cittadini è molto suggestivo.

Così come scattare un selfie nella sala riunioni della Stasi, dove venivano prese le decisioni più importanti, più estreme, più totalizzanti. Ti coglie quasi la paura di cliccare.

E mentre ti immergi in quel mondo così impregnato di ideologia ti guardi intorno per scovare in qualche angolo l’ultima telecamera nascosta alla quale non hanno comunicato che il Muro di Berlino è caduto. E lei continua fedelmente a spiarti e a produrre dati che però più nessuno schederà.

Andrea Marsiletti

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