Il romanzo distopico: il dominio contro l’amore (di Marcello Frigeri)

Nell’articolo dedicato a Lovecraft abbiamo visto come la paura dell’incerto (dell’ignoto) (LEGGI), magistralmente espressa dal Solitario di Providence, rappresenti con forza il metro di giudizio della società attuale, fondata sulla fecondità della scienza che tutto disvela. La paura dell’incertezza nell’epoca della certezza, quasi un ossimoro.

Oggi proseguiamo lo stesso cammino prendendo spunto da un altro genere letterario che, se osservato in controluce, molto riflette dell’epoca attuale: il romanzo distopico.

Parlando di Lovecraft ci siamo soffermati sul genere weird bussando alla porta del nichilismo nelle sue espressioni primo-novecentesche, con George Orwell e Aldus Huxley, invece, entriamo in un mondo alternativo dominato dal dominio. Mi rendo conto che l’affermazione suoni cacofonica, ma è la via più immediata per raggiungere il nocciolo del discorso: visto da una visuale ravvicinata, il dominio del dominio altro non è che il potere che genera potere: il potere che genera se stesso. In altre parole, nei romanzi di Huxley e Orwell, non c’è nulla all’orizzonte del potere se non il potere stesso.

Il nuovo mondo e 1984 – Huxley e Orwell

Con George Orwell e Aldus Huxley – 1984, il famosissimo romanzo di Orwell, e Il mondo nuovo quello di Huxley -, dicevamo, siamo in un mondo dominato da potenze dittatoriali e totalitarie che soggiogano gli uomini, ogni aspetto della vita viene dominato, controllato e predeterminato. I bambini si concepiscono in provetta in un processo simile a quello di una catena di montaggio, il lavoro non è libero, la proprietà non esiste, l’unico culto ammesso è il culto dello Stato totalitario, la storia è cancellata oppure dimenticata, il fine è la sopravvivenza del culto nello Stato totale.

Sotto il potere del dominio incontrastato non c’è speranza di elevarsi a qualsiasi principio di libertà: la libertà è un valore cancellato dal tempo e dalla storia, come lo sono l’individuo e l’umanità in quanto creatrici di progresso e di valori. Nei due romanzi distopici l’umanità non è un soggetto creatore ma un oggetto dominato. Huxley scrive il suo romanzo nel 1932, Orwell nel 1948: è chiaro come il periodo storico, al pari dei racconti di Lovecraft, rifletta con forza i pensieri dei due autori.

Parlandone, possiamo trovare tante analogie tra 1984 e Il mondo nuovo, in linea generale possiamo parlare dei romanzi distopici leggendoli sotto la stessa lente d’ingrandimento, gustando in essi il medesimo succo e cogliendo il medesimo messaggio: lo scontro (eterno) tra la volontà di essere liberi e il potere che (generando se stesso) ci sovrasta in ogni aspetto della vita. Ma, io credo, c’è un unico comune denominatore che unisce il genere distopico così pensato da Orwell e Huxley. Un unico comune denominatore che potrebbe raccontarci molto dell’epoca contemporanea. In questi due romanzi, così profondi e perversi, così lontani e vicini al tempo stesso, la grande sconfitta non è la libertà, la quale semmai è conseguente, ma l’amore.

L’amore, ovvero andare oltre se stessi

“L’amor che move il sole e l’altre stelle”, direbbe a noi Dante mostrandoci anzitempo la via verso (questa nostra) verità. Come a dire: tutto si genera per mezzo dell’amore. Ma tutto cosa? Tutte le volontà. “La massima cura è posta nell’impedirci di amare troppo qualsiasi cosa”, rivela il Governatore Mondiale per l’Europa Occidentale ai protagonisti (ribelli) ne Il mondo nuovo, al fine di chiarire che l’amore non può essere concepito in uno Stato totalitario; “Se riusciranno a fare in modo che il nostro amore finisca, questo è tradire. Questa è la sola cosa che non sanno fare. Possono costringerci a dire tutto e il contrario di tutto, ma non possono entrare dentro al nostro animo”, si confessano invece i due protagonisti (ribelli) in 1984. Nei due romanzi l’amore, non già il bisogno di libertà, è la minaccia ai governi totalitari.

E allora ecco avvicinarci al nocciolo della nostra tesi: l’amore che si autoafferma rappresenta la sconfitta totale del potere che genera se stesso.

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Prima di spiegare perché ciò avviene, bisogna chiedersi cos’è l’amore.

Impervio definirlo, il suo atomo saprebbe sfuggirci senz’altro. Eppure dell’amore qualcosa possiamo affermare: amare significa andare al di là di sé, significa elevarsi oltre a se stessi. Dentro all’amore c’è il volente (colui che amando esce da sé) e il voluto (la cosa verso cui noi, amando, tendiamo). L’atto d’amore è un atto di volontà, e la volontà è un uscire da sé per raggiungere la cosa verso cui tendiamo. Può essere amore dell’arte, amore della vita, amore dell’amata o dell’amato, amore di qualsiasi cosa: l’amore è un atto di volontà che ci fa tendere fuori. Novalis, il grande poeta tedesco precursore del romanticismo che perse d’improvviso la donna della sua vita, scrisse che un giorno, mentre piangeva di fronte alla lapide dell’amata, “… si librò il mio spirito sciolto nuovamente nato. [allora, nda] Millenni sprofondarono in lontananza tempestosi”. L’amore è un (librarsi) elevarsi, un andare oltre se stessi. Non è solo estasi: è anche sofferenza, ma la sofferenza è una conseguenza di quell’atto di volontà (“Io voglio Dio, voglio la poesia, voglio il pericolo reale, voglio la libertà, voglio il peccato”, disse il Selvaggio al Governatore, “Insomma” rispose il Governatore al Selvaggio, “Lei reclama il diritto di essere infelice”, “Ebbene sì, io reclamo il diritto di essere infelice” – Il mondo nuovo -).

La società della scienza: l’amore contro il dominio

Siamo giunti ora alla penultima porta chiusa lungo il nostro cammino. Se l’amore significa compiere un atto di volontà, un voler uscire da sé per tendere alla cosa amata, e se il potere che genera potere è l’unico orizzonte in un mondo dove non si ammette volontà alcuna, allora le due cose non possono convivere. L’amore e il dominio (che genera se stesso) sono antitetici. Perciò l’amore, non già la libertà, sarà sempre bandito da un mondo in cui l’unico fine è l’impulso al potere.

La mancanza di libertà è solo una conseguenza e può essere latente, ovvero possiamo pensare di essere liberi in un mondo che, però, non è libero. Non possiamo, al contrario, pensare di amare in un mondo in cui l’amore non c’è.

Ora strappiamo da 1984 e da Il mondo nuovo il loro nocciolo, teniamolo ben stretto e facciamo un passo dentro al reale: nella società in cui viviamo i due impulsi (dominio e amore) sono in conflitto? Ritorno ancora una volta a Bertrand Russell e al suo La visione scientifica del mondo il quale, per certi aspetti, anticipa le tesi di Huxley e Orwell e tutta la letteratura utopistica dello scorso secolo: “Noi – scrive Russell aprendo finalmente l’ultima porta del nostro cammino – possiamo cercare di conoscere un oggetto, perché amiamo l’oggetto, o perché desideriamo di poterlo dominare. Il primo impulso porta a quella specie di sapere che si dice contemplativo, l’altro a quella specie che si dice pratico. Nello sviluppo della scienza l’impulso del potere è prevalso sempre più sull’impulso dell’amore”.

Con queste parole Russell descrive la società contemporanea, che definisce “società della scienza”. Una società in cui la tecnica scientifica, in estrema sintesi, detta la strada e dirige il traffico. Egli non si abbandona a deprecare la scienza come molti altri, semmai denuncia un suo allontanamento dall’armonia con la vita, pensiamo alla creazione e all’utilizzo della bomba atomica o alla devastazione di alcune parti del Pianeta a discapito del produttivismo e del consumismo. Russell afferma che il sapere scientifico non è mai un male, è l’ignoranza a essere cattiva: “La fonte di questi pericoli non è il sapere – scrive -. Piuttosto la fonte di questi pericoli può essere una crescita non equilibrata tra sapienza e saggezza”. La saggezza, in estrema sintesi, deve muovere gli ingranaggi della scienza: la saggezza è l’armonia della scienza nello sviluppo della vita.

Russell ci avverte che se nella “società della scienza”, in cui Huxley e Orwell hanno scritto i loro due romanzi avvertendo quel latente malessere del dominio, la tecnica scientifica (come metodo di approccio umano al mondo) governasse senza alcun impedimento attraverso il suo freddo calcolo senza saggezza o lontano dall’armonia della vita, l’impulso della scienza sarebbe quello del dominio: il potere che genera se stesso. Se al contrario nella “società della scienza” la scienza equivale alla ricerca del sapere (come lo è stato per Newton, Galilei, Einstein, Maxwell e tanti altri), l’impulso diventa quello dell’amore per la verità. Le due cose, ancora una volta, le percepiamo antitetiche.

Concludendo, Huxley e Orwell scrivono sotto forma di romanzo ciò che Russell denuncia col suo saggio La visione scientifica del mondo: “Il tema de Il mondo nuovo non è il progresso della scienza in quanto tale, ma è il progresso della scienza che colpisce gli individui”, scrive infatti l’autore de Il mondo nuovo nella prefazione all’edizione del 1946.

Nella “società della scienza” può esservi il dominio che genera dominio oppure l’amore che genera amore. Il primo è l’impulso del potere fine a se stesso, il secondo è l’impulso che ci porta al di là di noi, ci eleva e ci conduce verso la cosa amata in una tensione che porta con sé anche la sofferenza (ma la sofferenza, in fondo, è vita). Queste sono le due vie che in grande sintesi George Orwell, prima di lui Huxley, e prima di loro Russell, ci pongono dinanzi. Se la loro tesi è corretta, se nella genesi del mondo attuale la lotta tra il dominio e l’amore è latente ma esistente, ognuno di noi può fare molto per sé, facendo molto per sé pianta un seme per l’umanità.

Marcello Frigeri

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