INTERVISTA a Maria Letizia Bortesi, dirigente medico del Pronto Soccorso di Vaio: “Ho paura di una seconda ondata di Coronavirus, se abbassiamo le difese”

È stata un po’ come un’inondazione. Un’onda d’urto, un evento non controllabile quello che ha colpito gli ospedali del nord Italia e fra questi anche quello di Fidenza.

L’ospedale di Vaio non esiste più in quanto tale: si occupa esclusivamente di pazienti Covid-19. Dove c’era l’ortopedia ora ci sono pazienti affetti da Coronavirus, così in cardiologia, ginecologia, urologia e in tutti i reparti. Dove c’erano sale operatorie ci sono oggi altri posi letto di terapia intensiva che sono più che raddoppiati: prima erano 7 e ora sono 16, oltre a 14 posti letto in sub intensiva, reparto dove i pazienti non sono intubati ma hanno bisogno di grande supporto di ossigeno. E tutti i medici si occupano della stessa patologia. Gli unici reparti che hanno mantenuto l’originaria identità sono il pronto soccorso e la medicina d’urgenza.

Abbiamo raccolto il racconto di Maria Letizia Bortesi, 46 anni, dirigente medico del pronto soccorso di Vaio, racconto che riporta soprattutto di una grande fatica emotiva per tutto lo staff, non solo per i medici.

Noi siamo una realtà medio piccola rispetto ad altre città, immagino cosa sia accaduto nei centri più grandi, come Parma, per esempio. Certo che anche qui le prime due settimane di marzo hanno avuto un impatto molto potente sotto vari punti di vista: fisicamente perché abbiamo avuto il triplo dei pazienti, ma soprattutto dal punto di vista emotivo. E questa fatica psicologica prima o poi la pagheremo. Ora non ne abbiamo ancora avuto il tempo, ma il conto prima o poi arriverà.

In che senso?

Le persone arrivavano a decine, in grandissima quantità e con una rapidità mai vista prima. Alla fine della seconda settimana di marzo l’ospedale era strabordante avevamo pazienti ovunque, anche nei corridoi. Per questo ad un certo punto le ambulanze con pazienti covid-19 sono stati dirottati a Parma. C’erano parenti che ci chiamavano perché non sapevano più niente dei loro congiunti, abbiamo dovuto comunicare decessi di entrambi i genitori ai figli, abbiamo risposto a telefonate disperate di parenti. E poi riferire i messaggi drammatici dei ricoverati a chi era rimasto a casa. Abbiamo dovuto affrontare una cosa a cui non eravamo preparati e fino a che ci saremo in mezzo forse non ci renderemo bene conto, ma quando finirà anche noi medici infermieri e oss dovremo affrontarla dal punto di vista psicologico. Non è stato facile. Non siamo macchine.

Ci sarà un prima e un dopo Coronavirus?

Sì, credo per tutti, ogni famiglia, ogni persona dovrà farci i conti, ci sarà grande lavoro per psicologi e psichiatri… Per ora però non possiamo abbassare la guardia, assolutamente. Alcuni dati sono confortanti, ma dobbiamo stare molto attenti a non vanificare i risultati che stanno arrivando.

Sei madre di tre figli, come è stato conciliare questo periodo drammatico con la famiglia? Hai avuto paura di contagiarli?

È stato un po’ angosciante. Intendiamoci, mi piace quello che faccio, adoro il mio lavoro e quando ci sei in mezzo fai quello che devi, ma sia uscire di casa che tornarci era ed è un travaglio fisico e morale notevole. Potenzialmente potrei essere infettata e magari asintomatica… Quindi non abbraccio i miei figli da settimane. È uno sforzo terribile, certo magari a quelli di 17 e 13 forse non pesa, ma al piccolo di 9 sì.

Avete sempre lavorato in sicurezza con i dispositivi di protezione individuale?

Sì, fortunatamente abbiamo sempre avuto tutto ma è molto faticoso lavorare con tutte le protezioni: sovra camici, mascherine, occhiali, guanti. I più esposti per la tipologia di lavoro non siamo tanto noi medici quanto gli infermieri e gli oss, un ruolo quest’ultimo di cui si parla poco, ma che in realtà è fondamentale, soprattutto adesso, in questa fase. Non siamo intercambiabili ovviamente, ma tutti i ruoli sono importanti. Se si allenta un anello della catena lavoriamo molto peggio. Ognuno di noi ha un compito preciso da svolgere.

Che idea ti sei fatta di questo contagio?

Prego tutti i giorni che in realtà i contagiati siano molti di più di quanto sappiamo, perché vorrebbe dire che la mortalità è più bassa di ciò i numeri ci dicono oggi. Credo che il virus fosse in giro da tempo e che quelle strane polmoniti o gastroenteriti di gennaio fossero riconducibili al Covid-19.

Sei ottimista per il futuro?

Sì, devo esserlo. Tutto ha un inizio e una fine. La mia paura ora è l’ipotesi di una seconda ondata che non è da escludere, se abbassiamo le difese. Auspico che sia utile ciò che stiamo facendo che tentativi con i farmaci funzionino, che ci siano presto delle evidenze. Perché a volte ci sentiamo un po’ impotenti. E penso che dovremmo anche trarre una lezione per non essere così sprovveduti in futuro. Mi riferisco anche a come stiamo trattando il nostro pianeta, gli agenti patogeni non si sviluppano mai a caso.

Tatiana Cogo

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