
“Scrivo? Non scrivo? Mi si nota più se scrivo o se non scrivo?”… Basterebbe questo remake del celebre incipit morettiano per motivare un’altra non recensione. Come quella che sto per scrivere sul Festival.
Ormai non se ne esce. Anzi, per dirla con Jim Morrison: “No one here gets out alive”!
Sanremo ha imbrigliato tutti: cantanti popolari, commerciali, artisti di nicchia, artisti controcorrente…
Nessuno può più permettersi di rinunciare a Sanremo: l’alternativa è sparire da quel poco di mercato musicale che è rimasto.
E allora? Allora Brunori, Lucio Corsi… artisti che 15 anni fa non sarebbero mai andati a Sanremo: eccoli!
Un male? Un bene? Chissà, mica siamo qui a fare la morale… Ci pensano già i social no?!
Per il livello musicale di Sanremo, sicuramente è un bene che alcuni bravi artisti – o per dirla all’antica cantautori – entrino nella competizione.
Certamente, se si parla di musica d’autore, rivedo quei giganti lontani, alcuni ancora viventi e operanti, altri no… Fabrizio De Andrè, Francesco Guccini, Paolo Conte, Francesco De Gregori…
Nessuno di questi si è mai sognato di calcare il palco dell’Ariston.
Piuttosto si trovavano nell’allegra brigata del “Tenco”, nobile e altero “controfestival”, luogo di elezione (allora) della musica d’autore dura e pura. Ma questi tempi non sono più quei tempi.
Certo, resta “Festival” di De Gregori… la più bella canzone scritta su Sanremo, dedicata a Luigi Tenco e alla sua tragica sorte legata proprio a Sanremo.
Sembra sgorgata dalla penna di Bob Dylan, di cui ho scritto la scorsa settimana, ma il succo amaro è tutto del “principe”, immerso per contrasto in una dolce musica, come lui ama fare.
Allora, in questo 2025, dove “G, la donna del secolo” (Giorgia si, ma non la cantante) è intenta a lanciare ponti meravigliosi tra Italia e Usa, grazie ai satelliti muskiani… e dove il suo ministro più in vista è intento a mettere tutti i finanziamenti sull’unico ponte che ha in testa, lasciando sgarrupate le strade dove gli umani italici transitano e stabilendo ritardi record nel trasporto ferroviario (…e allora M che direbbe?).
In questo 2025 dove essere operai risulta quasi una colpa – la parola non riesce ad entrare nel neo vocabolario woke schleiniano, in quanto troppo scontata – il vero sindacalista è Brunori, con la giacca bella e la chitarra da cantautore imborghesito, che canta la bellezza della vita familiare (altro che i cancelli di Mirafiori e Pomigliano)… e che sta facendo fare il corso da futuri delegati a Rocco Hunt e Willie Peyote.
Sembrava un Festival destinato al declino, dopo l’abbandono di Ama(Deus ex machina)… e invece il soldatino Carlo Conti, con la sua esperienza di lungo corso con mamma Rai, ha sovvertito i pronostici.
Complice una settimana dove è diluviato in continuazione… e questo fa rima con televisione.
Insomma, non ne usciamo, dobbiamo origliare queste canzoni – alcune delle quali dureranno solo “una settimana e un giorno” – e ne dobbiamo parlare… così come dobbiamo sorbirci tutto il contorno, in tv, ma ahimè, ancora di più sui social.
E chi ne parla male ne parla comunque… Vecchia storia anche questa. Forse solo gli italiani all’estero possono dire di non esserne coinvolti. Forse.
Sanremo è lo specchio più clamorosamente reale dell’Italia. Ci sono i vizi, le virtù, le ipocrisie, i voli, quelli pindarici, quelli poetici… per fortuna quest’anno in gara non c’è Il Volo (nemmeno Fabio). Ma non c’è da illudersi. Non se ne esce, comunque.
Così, come i Duran Duran ci hanno dimostrato che “non si esce vivi dagli 80” (però si può continuare a vegetare bene, come loro), rassegniamoci, che si sia dentro o fuori dall’Ariston… “Nessuno uscirà vivo di qui”.
PS non parlo delle canzoni? Beh, l’avevo detto che era una non recensione…
(nella foto, Jim Morrison con la collana di Tony Effe)
Alberto Padovani
Recensioni necessarie #2