
Parma, l’Emilia e il suo strato culturale, possono sembrare il terreno meno fertile per il fiorire dell’haiku: rigida e breve terzina dal Sol Levante, divenuta sinonimo di profonda sintesi e portanza poetica.
Eppure dalla nostra provincia vi è un illustre precedente. Pier Luigi Bacchini infatti, nel 2003 pubblica per “Gli Elefanti” della Garzanti “Cerchi d’acqua: haiku”. Bacchini dopo aver aperto il varco tra il 900 e il secondo millennio della poesia italiana, con opere straordinarie come “Scritture Vegetali” nel 1999 e “Contemplazioni Meccaniche e Pneumatiche” nel 2005, entrambe per Arnoldo Mondadori Editore, proprio intorno alle colline di Medesano ha elaborato quella sorprendente e preziosa raccolta di Haiku:“Da tempo quella lucertola/spia un insetto rosso – non ancora il pensiero” (Relitto).
Ecco, Emiliano Vernizzi e Alessandro Sgobbio, limpidi talenti dal nostro “terroir”, hanno realizzato, al mio orecchio, la medesima operazione.
Si chiama “What What” (Unit Records, 2018), “un’intima collezione di frammenti melodici e silenzi” come leggo dalle note stampa: loro si chiamano “Pericopes”, e tra pericope ed haiku si possono trovare evidenti affinità.
Di certo Manfred Eicher e gli artisti ECM hanno modellato il jazz in una forma classica (neo-classica), verso una musica dalla vocazione universale, che ne adotta le radici, ma che trascende i generi: e “What What” si inserisce in questa vasta corrente con classe e personalità. Ricorda l’approccio di opere come “Imaginary Cities” di Chris Potter and Underground Orchestra (Ecm, 2015) in quanto a intento comunicativo, o la levitò di “Angel Song” del trombettista Kenny Wheeler (Ecm, 1997); prendendo le distanze invece da tutto quanto evolve il jazz ibridandolo con il funk o il rock addirittura… i Bad Plus di Joshua Redman, tanto per capirci.
Un Duo piano e sax è equilibrio delicato che richiede corrette sovrapposizioni e contrappesi, scambi di ruolo, una scrittura ricca e al contempo sintetica, per tenere alta la concentrazione.
I Pericopes evidentemente ne sono consci e i nove brani guidano la narrazione verso ambientazioni precise e rarefatte, pur pulite da certa patina o grammatica superflue, verso decisi lidi sonori. Ricreano stanze visive poliedriche, a porte attigue, aprendo e chiudendo coerentemente atmosfere, senza soluzione di continuità, proponendo differenti gravità e passaggi a livello introspettivi.
Lavoro delicato e denso, come la timbrica dei due componenti. Strati armonici complessi resi fluidi e afferrabili in un continuum volutamente armo-melodico in clima non colemaniano.
Emiliano Vernizzi fornisce una personale e leggibile sintesi della tradizione e della modernità strumentale. Suono, diciamolo, bellissimo. Talmente approfondito che risulta quasi netto da influenze evidenti. Vernizzi ha distillato il “suo” suono con lavoro certosino e viaggia sicuro attraverso la partitura; tanto sicuro che quando arriva all’audacia, lo fa con passaggi fondati (“What What”). Ci guida nel percorso disegnato dal duo, mai negando la ricchezza delle impressioni tattili di cui lo strumento è capace: da sfuggenti limpidezze quasi fusion ai toni evocativi Ecm come nella bellissima “Cocteau”, passando dai sentieri asimmetrici di ”The Windmills Trail” o sperimentali di “What What”, con retrogusti fin kletzmer o Bop oriented, come inizialmente dichiarati in “Danza di Kuwa” o in “Tzukiji”.
La prospettiva architettonicamente delineata dal vasto pianismo di Sgobbio rende il lavoro privo di incertezze, seguendo un modello di strutturazione dinamica ed emotiva: l’iniziale “La Dance des Holothuries”. Le combinazioni mai didascaliche, l’impatto sempre determinante, intelligente. Potenza ritmica (“Orat 29”), capacità atmosferica e supporto al lirismo di Vernizzi mai stantio, sempre rigenerante, nella quiete e nella forza, come in “Martyfield”. Un Misha Alperin di “Wave of Sorrow” (Ecm, 1989) meno criptico, meno drammatico, più pervasivo. Pronipote, comunque, di quella vasta genia debussyniana che sta delineando il pianismo da un secolo (Debussy morì il 25 marzo di 100 anni fa precisi).
I due tessono una trama sintetica e toccante che non cade mai nella retorica o nella tentazione “new age” di alcune produzioni mitteleuropee di inizio millennio. Un dialogo continuo che traccia una “mappa dei luoghi” di Ciceroniana memoria, un percorso psico-emotivo completo, visibile: ascoltate dall’inizio il racconto di “Tzukiji”, dalla roboante partenza alla dissolvenza in un finale di cristallina purezza.
Insomma, un disco fatto di bellezza, di estetica priva di narcisismo. Due interpreti e compositori eccellenti che si specchiano in un progetto unico, vivido. Una fortuna auricolare.
Voto 10/10
Max Scaccaglia
Sito e info: http://www.pericopes.it/
Ascolti e riferimenti consigliati:
Wave of Sorrow: Misha Alerin (Ecm, 1989);
Angel Song: Kenny Wheeler (Ecm, 1997);
North Story: Misha Alperin (Ecm, 1998)
Night: Misha Alperin (Ecm, 1998);
Imaginary Cities: Chris Potter and Underground Orchestra (Ecm, 2015).