
La vita di Brenner è stata condizionata da quando, nel 1982, è arrivato secondo ai campionati mondiali di videogiochi. La registrazione di quell’evento fu mandata nello spazio come parte di un esperimento della NASA e, a quanto pare, qualcuno l’ha ricevuta. Una razza aliena ha visto i videogiochi e pensato fossero uno strumento di addestramento per la guerra, ora, dopo 33 anni sono arrivati sulla Terra con delle versioni reali di quei videogame, pronti a sfidare i terrestri e, in caso di vittoria, a distruggere il pianeta. Esercito e difesa possono poco contro qualcosa che non conoscono, l’unica speranza dell’umanità è un gruppo di ex ragazzi prodigio dei videogiochi ormai cresciuti, i migliori in quel campo.
Dietro a Pixels, il film, c’è Pixels, il video postato su YouTube nel 2010 da Patrick Jean, 2 minuti e 34 secondi di creatività e ritocco digitale realizzato in totale indipendenza. Quello che il video mostra è New York attaccata dai videogiochi 8 bit, ogni cosa che toccano o colpiscono se non viene distrutta diventa composta da cuboni, come fosse fatta da grossi pixel (l’unità di misura della grafica degli schermi). Non c’è una trama, solo una suggestione audiovisiva: i videogiochi pixelati degli anni ’80 trasformano la metropoli per farla assomigliare a se stessi. Da questo Adam Sandler tramite la sua Happy Madison ha prodotto un film che amplia il concetto dell’attacco dei videogiochi 8bit ad un’avventura nello stile di Ghostbusters (con qualche eco più raffinato dal bellissimo documentario King of Kong), una cioè in cui un gruppo di individui ai margini della società diventa una banda di eroi in una lotta comica e paradossale contro un nemico ai limiti del sovrannaturale.
Purtroppo sia del rigore visionario di Patrick Jean, sia dell’umorismo e del senso d’avventura di Ivan Reitman non c’è quasi niente in Pixels, operazione che somiglia più che altro a quella di Ralph Spaccatutto, ovvero un tentativo di conquistare il pubblico tra i 30 e i 45 anni tramite l’effetto nostalgia dato dall’esibizione di personaggi e marchi dalla videoludica anni ’80. Da Super Mario a Pac-Man passando per Q*Bert e gli Space Invaders non manca nessuno, la quasi totalità di marchi e brand fondamentali è stata coinvolta, tutto assolutamente non intellegibile per gli under30 (pubblico al quale il film dà veramente poco e che nel migliore dei casi può comprendere la metà dei riferimenti) e tutto privo di qualsiasi sguardo retrospettivo. Pixels rievoca un design e una serie di figure dell’immaginario collettivo pop cercando il punto di vista meno compromettente, quello della nostalgia fine a se stessa, incapace (o forse non intenzionato) a pensare a ciò che fa.
Perchè al di là dello spunto il resto del film è un lungometraggio nel pieno stile Sandler, passatista e molto conservatore, intenzionato a blandire i propri coetanei. Anche la partecipazione di Chris Columbus aggiunge pochissimo. Il veterano della regia del cinema per ragazzi riesce a comprimere i tempi (ci sono delle ellissi narrative non comuni e molto funzionali), riduce i danni ed esalta le battute o situazioni comiche migliori. Nelle sue mani una sceneggiatura non distante da altri exploit di Sandler (è scritta da Timothy Dowling e Tim Herlihy) diventa un film scorrevole, in cui azione e comicità cercano senza speranza una chimica e un’alchimia che purtroppo arriva solo raramente. Il modello-Sandler, che negli anni ’90 aveva animato un pugno di film clamorosi per potenza umoristica ed esibizione di un corpo comico diverso, all’incrocio tra l’esagerazione di Belushi e la compostezza yiddish, è ormai completamente evaporato. Da diversi anni le sue produzioni si basano sull’esibizione di pessimi caratteri in pessime situazioni comiche, senza riuscire mai ad avere uno sguardo critico, nemmeno (paradossalmente) positivo su di essi.
Dietro a Pixels, il film, c’è Pixels, il video postato su YouTube nel 2010 da Patrick Jean, 2 minuti e 34 secondi di creatività e ritocco digitale realizzato in totale indipendenza. Quello che il video mostra è New York attaccata dai videogiochi 8 bit, ogni cosa che toccano o colpiscono se non viene distrutta diventa composta da cuboni, come fosse fatta da grossi pixel (l’unità di misura della grafica degli schermi). Non c’è una trama, solo una suggestione audiovisiva: i videogiochi pixelati degli anni ’80 trasformano la metropoli per farla assomigliare a se stessi. Da questo Adam Sandler tramite la sua Happy Madison ha prodotto un film che amplia il concetto dell’attacco dei videogiochi 8bit ad un’avventura nello stile di Ghostbusters (con qualche eco più raffinato dal bellissimo documentario King of Kong), una cioè in cui un gruppo di individui ai margini della società diventa una banda di eroi in una lotta comica e paradossale contro un nemico ai limiti del sovrannaturale.
Purtroppo sia del rigore visionario di Patrick Jean, sia dell’umorismo e del senso d’avventura di Ivan Reitman non c’è quasi niente in Pixels, operazione che somiglia più che altro a quella di Ralph Spaccatutto, ovvero un tentativo di conquistare il pubblico tra i 30 e i 45 anni tramite l’effetto nostalgia dato dall’esibizione di personaggi e marchi dalla videoludica anni ’80. Da Super Mario a Pac-Man passando per Q*Bert e gli Space Invaders non manca nessuno, la quasi totalità di marchi e brand fondamentali è stata coinvolta, tutto assolutamente non intellegibile per gli under30 (pubblico al quale il film dà veramente poco e che nel migliore dei casi può comprendere la metà dei riferimenti) e tutto privo di qualsiasi sguardo retrospettivo. Pixels rievoca un design e una serie di figure dell’immaginario collettivo pop cercando il punto di vista meno compromettente, quello della nostalgia fine a se stessa, incapace (o forse non intenzionato) a pensare a ciò che fa.
Perchè al di là dello spunto il resto del film è un lungometraggio nel pieno stile Sandler, passatista e molto conservatore, intenzionato a blandire i propri coetanei. Anche la partecipazione di Chris Columbus aggiunge pochissimo. Il veterano della regia del cinema per ragazzi riesce a comprimere i tempi (ci sono delle ellissi narrative non comuni e molto funzionali), riduce i danni ed esalta le battute o situazioni comiche migliori. Nelle sue mani una sceneggiatura non distante da altri exploit di Sandler (è scritta da Timothy Dowling e Tim Herlihy) diventa un film scorrevole, in cui azione e comicità cercano senza speranza una chimica e un’alchimia che purtroppo arriva solo raramente. Il modello-Sandler, che negli anni ’90 aveva animato un pugno di film clamorosi per potenza umoristica ed esibizione di un corpo comico diverso, all’incrocio tra l’esagerazione di Belushi e la compostezza yiddish, è ormai completamente evaporato. Da diversi anni le sue produzioni si basano sull’esibizione di pessimi caratteri in pessime situazioni comiche, senza riuscire mai ad avere uno sguardo critico, nemmeno (paradossalmente) positivo su di essi.
(Si ringrazia Mymovies.it per la collaborazione)
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