
Era l’autunno di un 1977, per dirla un po’ a caso. A Londra più che il caso, regnava il rabbioso caos antisistema: in un paesotto della provincia parmense gli echi dei Clash e dei Sex Pistol però non si udivano proprio. Mi capitò invece, dalla copiosa eredità musicale fraterna, una cassettina che ho consumato a forza di ascolti. Dovete sapere, per chi non lo avesse sperimentato, che una delle poche benedizioni della minoritaria condizione di essere fratelli minori, è in alcuni casi l’eredità musicale… Soprattutto se è quella che deriva dagli splendidi e gloriosi anni ’60 e ‘70 (nel mio caso soprattutto i secondi).
La cassettina iniziava con un pezzo che mi rallegrava gli autunni nebbiosi: “Glad” (che significa lieto, appunto), con il suo incedere ostinato, quasi da marcetta funkeggiante, che sembra venire da uno scantinato trasmettendo euforia, e con una coda finale altamente esotica, che vale quanto il riff, o forse più. Si continuava con “Freedom rider”, eseguita con una leggerezza tecnicamente sostenuta, con la squillante voce “nera” del bianchissimo Steve Winwood, il caratteristico timbro del sax e del flauto di Chris Wood e i tempi sincopati di Jim Capaldi, ingredienti tutti questi che hanno reso irripetibile il suono dei Traffic, un sound che miscela magicamente generi diversi (soul, funky, jazz, rock psichedelico) divenendo un unicum stilistico.
Anche “Empty pages” si esprime su queste sonorità, nello stesso tempo strutturate ma ricche di groove e di ascoltabilità. La perla più lucente di quella cassetta è però la celebre “John Barleycorn Must Die”, brano tradizionale anglosassone (una specie di personificazione del whisky in forma di leggenda), reso magicamente dalla voce di Steve Winwood, intrecciata con il flauto “magico” di Wood: la versione dei Traffic è qualcosa di misteriosamente perfetto: un’alchimia tra passato e futuro, sintetizzato in cinque minuti di magia, che si ripropone di generazione in generazione (e dal 1973 di generazioni ne sono passate). Ogni tanto riappare (pensiamo all’utilizzo che ne fa Salvatores in “Nirvana”, quasi contradditorio con il disegno futuribile del film-videogioco) per far sì che le nuove pelli restino estasiate, almeno quanto il sottoscritto dal suo primo ascolto.
È la potenza dei classici, quella che anima “Aqualung” o “Stairway to heaven”, tanto per intenderci. Con la differenza (a vantaggio di Page, Plant & Co), che quest’ultima è farina integrale del loro sacco. Mentre questa è una pur mirabile reprise.
Ma, a differenza dei contemporanei e ancora più “flautistici” Jethro Tull, più inclini a ricreare (come i Genesis) una revival misticheggiante delle tradizioni anglosassoni trapiantate nella realtà del tempo, i Traffic sono piuttosto un supergruppo che ruota attorno al carisma di Steve Winwood, e che quindi, al fondo tiene un’anima profondamente pop, qui utilizzata per immergersi in un british folk allora decisamente in voga. In effetti i Traffic non dureranno molto, e quando “Mr. Fantasy” Winwood si esprimerà in solitaria accentuerà il suo caratteristico timbro soul-pop.
Non tutti i pezzi di “John Barleycorn Must Die” (ecco finalmente il link all’album completo) sono memorabili: ciò che li accomuna e che rende questo album un capolavoro è l’alto livello tecnico espressivo, che è proprio della generalità delle band di quel periodo. Trovatemi qualcuno non capace di suonare nei primi anni ’70… Non è semplice! Tutto il disco si può comunque intendere in effetti come una suite che sintetizza al meglio l’inconfondibile sound Traffic… Di cui si consiglia anche l’ascolto degli album, almeno fino a “When the eagle flies” del 1974, compreso il live “Welcome to the canteen”, che esalta la qualità musicale dei singoli e il groove che la band seppe raggiungere. Non dimenticando ovviamente lo splendido debutto nel 1967 con “Dear Mr. Fantasy” dal quasi omonimo album (ascoltatevi questo “The Best Of Traffic” per farvi un’idea del primo periodo).
Quando, diversi anni dopo, dopo il declino delle musicassette, ho scoperto la copertina di “John Barleycorn Must Die”, quel covone messo in primo piano su uno sfondo giallo antico me ne sono innamorato ancora di più: in effetti è una specie di orizzonte mitico, il fascino della vecchia Inghilterra, un contraltare rispetto alla Higway 66 e ai miti americani…
Eppure, dall’altra parte della TDK 90 in prestito temporaneo e clandestino c’erano i Supertramp, con “Breakfast in America” …ma questa, giustamente è un’altra storia che si è svolta dall’altra parte dell’oceano… A conferma del fatto che quando la musica è grande i confini culturali tendono a perdere rilevanza.
Alberto Padovani
Recensioni Necessarie #13