
Il 17 luglio 1918 lo zar Nicola II di Russia e la sua famiglia vengono uccisi dai bolscevichi.
“Fine dei Romanov” è un’espressione impiegata da svariati storici per designare l’insieme di omicidi politici compiuti dal nuovo potere sovietico su membri della ex famiglia imperiale. Dalla rivoluzione d’ottobre del 1917 ai primi del 1919 furono uccise una ventina di persone di ambo i sessi, circa un terzo dei membri adulti della famiglia imperiale, a partire dal deposto imperatore Nicola II con tutta la sua famiglia.
La prima azione concreta si ebbe la notte del 12 giugno, quando un gruppo di bolscevichi prelevò e uccise il granduca Michele, fratello e successore di Nicola II, che si trovava agli arresti domiciliari in un albergo di Perm’. Lui e il suo segretario, Nicholas Johnson, furono condotti in una foresta lontano dalla città e fucilati. I loro corpi vennero gettati in una fornace di una fabbrica perché non ne restasse traccia.
Dapprima i sovietici annunciarono che il granduca era scomparso, poi che era stato rapito dai bianchi, che era fuggito non si sapeva dove, in modo così da occultare il proprio crimine. In questo periodo da Mosca iniziarono a giungere voci circa l’assassinio dello zar, forse per “saggiare le reazione dell’opinione pubblica russa e internazionale di fronte all’uccisione di Nicola”: nessuno, né tra i governi né tra i molti parenti coronati della famiglia imperiale, diede cenno di preoccuparsi di loro.
Jakov Michajlovič Jurovskij fu incaricato di occuparsi personalmente della preparazione, dell’esecuzione e del successivo occultamento dell’eccidio della famiglia imperiale e delle persone che l’avevano seguita: in totale sarebbero morte 11 persone. Venne nominato comandante della Casa a destinazione speciale, ossia della Casa Ipat’ev, dove erano detenuti lo zar deposto Nicola II e tutta la sua famiglia, e nelle loro ultime settimane di vita gestì i ritmi della casa.
I Romanov vivevano sotto stretta sorveglianza e la prolungata convivenza con le guardie rosse era costellata di soprusi e angherie da parte di queste ultime verso l’ormai impotente famiglia, specialmente verso le figlie adolescenti dell’ex sovrano Ol’ga, Tat’jana, Marija e Anastasija. Sotto il precedente comandante della casa, i furti e gli scherzi triviali verso la famiglia erano all’ordine del giorno e i Romanov avevano persino difficoltà a tutelare la salute cagionevole del figlio minore di Nicola II, Aleksej, malato di emofilia, e della ex zarina Aleksandra Fëdorovna, sofferente di sciatica.
Con l’arrivo del commissario Jakov Michajlovič Jurovskij il regime della Casa a destinazione speciale cambiò: le guardie furono disciplinate a non avere contatti con i prigionieri e i furti cessarono improvvisamente.
Jurovskij si informava giornalmente da Nicola Romanov circa la salute della moglie e del figlio, talvolta accettava di portare qualche richiesta all’esterno e permise alle suore di un convento vicino di portare latte e uova fresche per i prigionieri. Nel frattempo effettuava tutti i preparativi per l’esecuzione.
Nella seduta del Soviet dove si sarebbero decisi i bersagli dei carnefici, le guardie rosse si rifiutarono di sparare sui figli e Jurovskij dovette chiamare ex prigionieri di guerra austro-ungarici che avevano aderito alla rivoluzione a cui spiegò tutto in tedesco; fra di loro si dice fosse presente anche il giovane Imre Nagy, in realtà è appurato che l’Imre Nagy ivi presente era soltanto un omonimo e si deve tenere presente che all’epoca questo nome era parecchio diffuso.
La notte tra il 16 e il 17 luglio, alle 11 di sera, Jurovskij chiamò il suo assistente Medvedev e gli diede le seguenti disposizioni: raccogliere 11 revolver dai soldati della casa; avvisare il corpo di guardia della casa di non allarmarsi, se avesse udito degli spari.
A mezzanotte, Jurovskij svegliò i Romanov e ordinò loro di prepararsi per una partenza; spiegò che, in concomitanza dell’arrivo imminente dei bianchi in città era scoppiata una sommossa e che sarebbe stato più sicuro trasferirli altrove. Mezz’ora più tardi Nicola II, la moglie Aleksandra, il medico Botkin, l’inserviente Trupp, il cuoco Charitonov, poi i cinque figli, Ol’ga, Tatijana, Marija, Anastasija, Aleksej e la dama di compagnia Anna Demidova scesero le scale e Jurovskij li invitò ad entrare nella stanza del pianterreno.
Alludendo alla sua professione di fotografo, il commissario li dispose come per una fotografia di notifica: seduti in prima fila Aleksandra Fëdorovna e Aleksej, accanto a loro Nicola e alle loro spalle le figlie; sui lati i membri del seguito.
Quando tutto fu pronto, Jurovskij chiamò il commando armato e 10 uomini si ammassarono sulla porta attendendo l’ordine.
Gli uomini ammassati sulla porta tesero i revolver e bersagliarono sul gruppo: Aleksandra Fëdorovna cadde subito dopo il marito, seguita da Aleksej; dopo di loro si rivolsero alle figlie e al seguito.
Nella confusione generale, i pianti e le urla delle ragazze confondevano gli uomini, che non riuscivano a mirare correttamente; le figlie, avendo cucito alcuni gioielli nei vestiti, dovettero subire più colpi prima di cadere e far cessare le urla che disturbavano i carnefici.
I gioielli cuciti negli abiti facevano rimbalzare i proiettili sui corpi delle donne, che ferite e spaventate, non sembravano smettere di dibattersi in preda al dolore e al terrore.
Dopo circa venti minuti, l’esecuzione ebbe termine.
Tuttavia, al momento di trasportare i corpi all’autocarro, il commando si accorse che non tutti erano morti e vennero finiti a colpi di baionetta.
I cadaveri vennero caricati su una camionetta che, seguita dal commando di Jurovskij, si addentrò nel bosco di Koptjakij per passare alla fase dell’occultamento. A metà strada l’autocarro si impantanò: il commissario decise quindi di bruciare sul posto due corpi per confondere un’eventuale futura indagine dei bianchi. Nella sua nota egli attesta che bruciò il corpo di Aleksej e di una donna (probabilmente Marija o Anastasija) che identifica con Anna Demidova.
Dopo la prima cremazione e il disincaglio del carro, Jurovskij e i suoi arrivarono nel luogo prescelto: una cava abbandonata chiamata la radura dei quattro fratelli (per la presenza di quattro ceppi di abeti).
Lì i cadaveri vennero spogliati (fu allora che gli uomini scoprirono i gioielli nascosti dalla zarina e dalle figlie) e fatti a pezzi con asce e coltelli; gettati nella cava, vennero cosparsi di acido solforico e poi dati alle fiamme.