22 marzo 1796: a Roma prende servizio il boia Mastro Titta

SMA MODENA
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Il 22 marzo 1796 a Roma prende servizio il boia Mastro Titta.

Giovanni Battista Bugatti, detto Mastro Titta (Senigallia, 6 marzo 1779 – Roma, 18 giugno 1869), e noto anche in romanesco come “er boja de Roma”, fu un celebre esecutore di sentenze capitali dello Stato Pontificio.

La sua carriera di incaricato delle esecuzioni delle condanne a morte iniziò il 22 marzo 1796: fino al 1864 raggiunse la quota di 514 (sul proprio taccuino, Bugatti annotò 516 nomi di giustiziati ma dal conto vengono sottratti due condannati, uno perché fucilato e l’altro perché impiccato e squartato dall’aiutante).

Le sue prestazioni sono difatti tutte annotate in un elenco che arriva fino al 17 agosto 1864, quando venne sostituito da Vincenzo Balducci e Papa Pio IX gli concesse la pensione, con un vitalizio mensile di 30 scudi.

Mastro Titta eseguiva sentenze in tutto il territorio pontificio. Un anonimo autore del secolo XIX ne scrisse una finta autobiografia, intitolataMastro Titta, il boia di Roma: Memorie di un carnefice scritte da lui stesso, nella quale gli fa descrivere in questo modo l’inizio della sua attività di giustiziere al servizio di Sua Santità: «….(omissis), impiccando e squartando a Foligno Nicola Gentilucci, un giovinotto che, tratto dalla gelosia, aveva ucciso prima il prete di Cannaiola di Trevi e il suo cocchiere, poi, costretto a buttarsi alla macchia, grassato due frati».

Tale episodio ha ispirato il romanzo I topi del Papa, scritto da un discendente del Gentilucci. La finta autobiografia, scritta e pubblicata molti anni dopo la presa di Roma e la morte del Bugatti, è scritta in chiave anticlericale e presenta Mastro Titta come un cinico e freddo assassino, mano spietata del governo del papa.

A Valentano, presso l’archivio storico, è reperibile la testimonianza della sua prima esecuzione nella località di Poggio delle Forche, scritta in prima persona: «Il 28 marzo 1797, mazzolai e squartai in Valentano Marco Rossi, che aveva ucciso suo zio e suo cugino per vendicarsi della non equa ripartizione fatta di una comune eredità».

Il nomignolo dato al Bugatti fu poi esteso anche ai suoi successori: in alcune terre che fecero parte dello Stato Pontificio (ma a Roma in particolar modo), il termine “mastro Titta” è sinonimo di “boia”.

Nei lunghi periodi di inattività, svolgeva il mestiere di venditore di ombrelli, sempre a Roma. Il boia viveva nella cinta vaticana, sulla riva destra del Tevere, nel rione Borgo, al numero civico 2 di via del Campanile.

Egli era naturalmente mal visto dai suoi concittadini, tanto che gli era vietato, per prudenza, recarsi nel centro della città, dall’altro lato del Tevere (donde il proverbio “Boia nun passa Ponte”, a significare “ciascuno se ne stia nel suo ambiente”).

Ma siccome a Roma le esecuzioni capitali pubbliche decretate dal papa-re, soprattutto quelle “esemplari” per il popolo, non avvenivano nel borgo papalino, ma sull’altra sponda del Tevere – in Piazza del Popolo o a Campo de’ Fiori o nella piazza del Velabro (dove Monicelli ha ambientato l’esecuzione del brigante don Bastiano nel film Il marchese del Grillo) – in eccezione al divieto, il Bugatti doveva attraversare il Ponte Sant’Angelo per andare a prestare i suoi servigi. Questo fatto diede origine all’altro modo di dire romano: “Mastro Titta passa ponte”, a significare che quel giorno era in programma l’esecuzione di una sentenza capitale.

Il 19 maggio 1817, George Gordon Byron si trovava in piazza del Popolo, mentre tre condannati (Giovanni Francesco Trani, Felice Rocchi e Felice De Simoni) venivano decapitati, e il poeta descrisse questa esperienza in una lettera indirizzata al suo editore John Murray.

Lo scrittore inglese Charles Dickens durante il viaggio che compì in Italia fra il luglio 1844 ed il giugno dell’anno successivo, mentre era di passaggio a Roma, nella giornata di sabato 8 marzo 1845 assistette ad una esecuzione in via de’ Cerchi effettuata dal Bugatti, che commentò nel suo libro Lettere dall’Italia.

Il mantello scarlatto che Mastro Titta indossava durante le esecuzioni è conservato nel Museo Criminologico di Roma.