
Non aggiungerò molte parole alle numerose e più autorevoli delle mie (non sto parlando dei commenti sui social ovviamente), su uno dei film che in questo periodo hanno riscosso maggiore attenzione da parte di pubblico e media… Film peraltro ben piazzato in vista degli imminenti Oscar.
Incredibile, a distanza di più di 60 anni dagli eventi (che poi si tratta di canzoni più che di eventi), l’interesse che un “non personaggio” come Robert Zimmerman, in arte Bob Dylan (in omaggio al poeta Dylan Thomas per i pochi che ancora non lo sapessero) riesce a suscitare.
Non era facile fare un film su di lui. Innanzitutto perché la filmografia su Dylan era già nutrita e qualificata: si pensi a “I’m not here” di Todd Haynes (2007), dove Dylan viene scomposto in diverse prospettive (da diversi attori, un cast stellare) a significare le diverse personalità, o meglio maschere, del “menestrello di Duluth” (quella più arcaica).
“A complete unknown”, del regista James Mangold – già a livelli molto alti in tema biopic con “Walk the line” dedicato al leggendario Johnny Cash – riesce a compiere il mezzo miracolo di raccontare gli inizi dell’intramontabile carriera di Bob Dylan, con una grazia, un equilibrio e un gusto scenografico che salvano il film dalle possibili mille e più cadute o scivoloni.
Merito del regista e degli scenografi, certamente: ma non di meno, il merito va a un cast eccellente nel calarsi nei rispettivi ruoli: un Timothée Chalamet che coglie l’essenza di Dylan (o meglio le essenze) e la restituisce in forma credibile e interessante… anche per le nuove generazioni. Tenuto conto (molti non lo fanno) di quanto sia più complicato interpretare un tipo come Dylan, tendenzialmente incazzoso e poco incline alla spettacolarità. Chalamet punta al lato magnetico, al carisma mercuriale, ovvero al segreto di fabbrica del successo di Bob.
Accanto a lui le due figure femminili antitetiche che danno un po’ di sale alla vicenda: la famosissima Joan Baez (grande interpretazione quella di Monica Barbaro), che in quel periodo ha condiviso arte e in parte vita con Dylan; e la sconosciuta Silvye Russo, sua prima musa (a cui Dylan dedica “Girl from the north country”), interpretata da una incantevole Elle Fanning, che gioca bene la parte della “vittima” innocente del successo crescente di Dylan.
Il pantheon dei personaggi che ruotano intorno all’esperienza del giovane Dylan si forma in modo progressivo: da un Woody Guthrie ormai allettato in ospedale e perso nei suoi fantasmi… ma che resta a vegliare come padre nobile sull’ascesa del figlio prediletto (sarà poi stato davvero così?), ad un Pete Seeger in versione talent scout – altro grande cantautore americano riscoperto da Bruce Springsteen nelle “Seeger Sessions” del 2006 – interpretato da un magistralmente tenero Edward Norton.
Torna anche Johnny Cash (evidente pallino del regista), presente in forma romanzata e piuttosto addolcita, ma funzionale alla narrazione, che lo vede sostenitore convinto delle mutazioni del giovane irrequieto cantautore in ascesa. L’altro mezzo miracolo dunque è compiuto dagli interpreti, che si calano con grande trasporto e naturalezza nel clima del Greenwich Village degli inizi ’60, o nel festival di Newport, in cui si coglie ancora la compostezza che in pochi anni lascerà il posto allo svacco totale di Woodstock.
Il bello del film – per dirla al modo di una non recensione – è quello di partire dalla “cameretta” (o dagli appartamenti raccogliticci in cui il giovane Bob si imbatte, spesso in buona compagnia), dalla dimensione intima dunque, per raccontare canzoni senza tempo, che hanno fatto la storia, non solo della generazione “dylaniata” …quella che poi esploderà nel 68, che avvertiva come forte l’impegno pacifista e ambientalista.
La dimensione intima si incrocia con l’ambizione di una generazione che voleva cambiare il mondo, con le tensioni di un pianeta ormai interconnesso (sebbene senza rete), dove la “baia dei porci” arrivò a pochi centimetri da una guerra nucleare, o perlomeno da una minaccia molto avvertita, bene raccontata nel film, in cui Dylan canta “Masters of war” nel Greenwich Village, intercettando una straniata Joan Baez che poi si innamorerà di lui, come accadrà in futuro ad uno stuolo di donne non facilmente enumerabile (si veda l’interessante articolossip https://www.liberta.it/rubriche-liberta/bob-dylan-80-anni-tra-donne-e-canzoni/ ).
Questo mood particolare, che pervade tutta la durata della pellicola, caratterizza il periodo più interessante di Dylan, quello in cui lui cambia pelle per la prima volta, da interprete tutto sommato fedele della tradizione folk (con la benedizione di Newport) fino al grande strappo del presentarsi proprio al Festival di Newport con la chitarra elettrica a tracolla e una band quasi rock al seguito, attaccando con “Maggie’s farm” e suscitando un vero vespaio tra il pubblico. Uno strappo netto, ma che rappresenta quello che nel mondo stava girando, lasciando il folk in una nicchia carina e irrilevante: emblematica in questo senso la critica feroce che Dylan spiffera a Joan Baez, quasi fosse un complimento, beccandosi giustamente dello “stronzo”, cosa che Dylan in effetti è sempre stato.
A proposito, vi ho già detto che il film si ispira al libro “Dylan goes electric!” di Elijah Wald?
Bob Dylan, col suo fiuto da outsider operò quello strappo, che è riuscito ad anticipare persino certi Beatles, che, dopo un successo fulminante dall’altra parte dell’oceano, sarebbero sbarcati di li a poco tempo negli USA per stabilire un nuovo ordine mondiale musicale. Lennon ha sempre dichiarato di essersi ispirato a Dylan… e si vede in alcuni suoi capolavori.
Bob Dylan, questo il punto, rimane un riferimento non solo musicale, ma di un universo culturale, che lui ha saputo rappresentare più e meglio di chiunque altro, rischiando e capitalizzando… portandolo all’evidenza della sua generazione, non solo negli Stati Uniti ma, grazie alla diffusione dei media, su scala mondiale.
Ci sarebbe stato poi il Vietnam, pochi anni dopo, ma la narrazione di “A complete uknown” si ferma all’ingresso della “Highway 61”.
Ci sarebbero poi state le altre “maschere” di Dylan – tema fondamentale, come detto, della sua poetica – il cantautore dolente e splendido di “Blood on the tracks”, il barricadero di “Hurricane”, la svolta cristiana di “Saved”, il talento ritornato in primo piano di “Time out of mind” e “Oh mercy” …e poi come un fiume carsico negli anni 2000, con “Love and theft”, “Tempest” e recentemente con “Murder most foul” dedicata a JFK, uscita in piena pandemia.
Ci sarebbero stati, tra l’altro, il concerto per il Papa Giovanni Paolo II nel 1997 …e sarebbe arrivato il primo Nobel per la Letteratura dato ad un cantautore, nel 2016. Cerimonia a cui, come sapete, Bob Dylan non partecipò, delegando Patti Smith al ritiro e alla celebrazione.
Aggiungiamo, per dovere di cronaca, che, mentre il film fa il pieno nelle sale, Mr Bob Dylan in ossa e carne, all’età di anni 84, sta girando gli USA con il “Rough and rowdy ways” world wide tour, giocando ancora con il “complete unknown” della sua celebre “Like a rolling stone”, con cui il film si chiude. (ops…)
Chiudo questa “recensione necessaria”, sebbene del tutto inutile, con una citazione fondamentale: “Elvis ci ha liberato il corpo, Bob ci ha liberato la mente” (Bruce Springsteen)
E tanto fa. Andatelo a vedere, se vi va.
“Recensioni necessarie” n.1
A cura di Alberto Padovani